Intervista a Isabella Tobino nipote del grande scrittore Mario Tobino

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Signora Tobino che uomo era suo Zio?
Era un uomo affabile con tutti. Gli infermieri che hanno lavorato con lui nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, ne hanno un ottimo ricordo, ne parlano molto volentieri. Mio zio, parlava con tutti, e di tutto, senza nessuna superbia, ma con la caratteristica anche di essere un uomo molto sanguigno sicuro delle sue azioni, aveva le sue idealità ed erano quelle e non si transigeva.
Per esempio?
Bè, ha avuto inimicizie con Moravia, con Montale, non gli piacevano, non gli piaceva la loro mentalità, non c’era nulla di personale, era tutto legato alla letteratura. Ci sono delle lettere, diari inediti che testimoniano questi “ scontri letterari”. Vede lui è sempre stato uno libero, la letteratura per lui è sempre stata non un lavoro, ma un vero piacere. Per cui altri scrittori che erano legati a una certa mentalità anche di partito, correnti letterarie, non gli piacevano, lui non si è mai fatto coinvolgere da nulla se non dalla sua libertà.
Come si spiega il fatto che Tobino riusciva a unire il medico che era, con l’aspetto romantico che lui ha sempre avuto verso i malati di mente?
Credo che facesse parte della sua natura, sia della sua visione della psichiatria, perché lui considerava i malati di mente come persone estremamente umane che avevano una difficoltà, una malattia che doveva essere curata con il colloquio, con la comprensione, e non con il distacco freddo tra medico e paziente. Poi, non dimentichiamo, quello che lui stesso ha scritto nei suoi libri, i così detti matti, erano,e sono, persone estremamente sensibili, e su certe cose a volte questa sensibilità è superiore alla nostra. I pazienti che erano a Maggiano, ma la cosa si può estendere a tutti, potevano compiere delle cose straordinarie, bastava riuscire entrare dentro di loro e tirarle fuori, e lui a volte ci riusciva, rimanendo per ore a parlare con loro, ad ascoltare tutti i loro deliri, ad udire la loro mente che viaggiava su altri binari diversi da quelli della normalità, ed erano racconti meravigliosi, quelle persone riuscivano a fare cose straordinarie in quei loro viaggi. Pensi,che questi pazzi mi hanno fatto i più bei giocattoli della mia vita.
In che senso?
Vede quella cornice in legno sul muro? Vede come è minuziosamente intarsiata? Bene quella è stata fatta da un pazzo, e mio Zio me la portò a me. E poi non le dico i giocattoli in legno, pupazzi, e casette per le bambole con le porte, ecc, a mio fratello invece facevano delle barche tutte cose fatte dai matti con le loro mani e mio zio li portava a noi, e io ci giocavo, erano bellissime sembrano comprati in un negozio. Questo per dire, che a parte le crisi, queste persone vivevano una vita diciamo abbastanza serena, persone insomma capaci di creare, di costruire, di concretizzare la loro sensibilità. Con questo non voglio dire che tutto andasse bene, all’interno del manicomio c’erano anche casi critici, da isolamento, ma anche loro potevano in qualche modo finita la crisi, dire qualcosa attraverso un’opera, probabilmente il manicomio di Maggiano era per loro un luogo di sofferenza, ma che sotto certi aspetti poteva diventare un’oasi felice.
Suo zio come arrivò all’ospedale di Maggiano?
Per concorso, anche se non ricordo bene i particolari. Dunque, lui frequentò la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Pisa e si laureò a Bologna nel 1936.
Poi divenne Specialista a Bologna in Neuropsichiatria e Medicina Legale.
Lavorò negli Ospedali psichiatrici di Bologna, Ancona, Gorizia, Firenze, e fu richiamato alle armi nella seconda guerra mondiale come Ufficiale medico di Sanità della Divisione “Pavia “che operava in Libia. Dopo l’esperienza in Libia dove fu ferito, al Manicomio di Maggiano, frazione del Comune di Lucca dove visse e lavorò per quaranta anni.
Secondo lei, da cosa fu spinto suo zio per scrivere il più famoso romanzo da lui scritto: “ le libere donne di Magliano”?
Il fascino che aveva per queste malattie. Gli è sempre piaciuto capire le persone, indagare su di loro, capire il loro comportamento, penso che fosse un dote innata questo leggere in punta di piedi i misteri della mente umana.
Questo suo modo particolare di studiare i malati, come era visto dagli altri colleghi?
Penso in maniera positiva, non applicava in fondo un suo metodo, che tra le altre cose non esiste, si rifaceva alla psicoanalisi, univa ad essa solo il suo animo romantico, cercava di capire prima di applicare, e quindi questo non suscitò mai tensioni tra colleghi.
Il problema si è creato con l’avvento della legge Basaglia, la famosa legge 180 (Chiusura dei manicomi e assistenza sul territorio) che cambiò il mondo della cura psichiatrica. Ecco mio zio aveva la paura che questi malati, venissero abbandonati,che li venisse strappato quel l’unico mondo da loro conosciuto, quel l’unica oasi di pace che si diceva prima, e che era la sola cosa che avevano.
Ci approfondisca questo punto importante
Vede, lui sapeva che il manicomio era un ambiente protetto per quelle persone, era loro casa. Le persone malate hanno bisogno di un ambiente protetto, nel quale poter sfogare le loro ansie, paranoie, paure. Sia chiaro, mi zio non era contro la legge Basaglia, non la riteneva sbagliata, si preoccupava di come poteva essere al meglio applicata, e il tempo gli ha dato ragione, ad oggi non abbiamo ancora strutture capaci di gestire bene i malati di mente che sono abbandonati a se stessi.
Guardi le dico una cosa, mio zio ha potuto costatare in prima persona che tanti pazzi di Maggiano si sono suicidati, oppure hanno fatto strage in famiglia, e questo dopo che erano stati abbandonati fuori dal manicomio, forse questo si poteva evitare.
Fu subito chiuso l’ospedale psichiatrico di Maggiano dopo la legge 180?
No non subito, la chiusura definitiva fu nel 2000. Diciamo però che molti pazzi furono rimandati a casa, e il manicomio fu aperto solo per un nucleo ristretto di persone, che a poco a poco se ne andava. Ma per le persone che tornavano a casa, si trovavano davanti a una realtà che non conoscevano, erano impreparati loro e gli stessi familiari, non è facile gestire una persona schizofrenica abituata per anni a un mondo e poi in un giorno trovarsi catapultata in un mondo che non le appartiene, mi creda è difficile. E quindi molti si sono uccisi e altri hanno fatto strage dei loro cari. Le voglio dire un’altra cosa, forse inedita: ai tempi della chiusura del manicomio di Maggiano, mio zio annotava su dei foglietti i decessi, “ …oggi è morto tizio….che si aggiunge alle vittime della chiusura del manicomio…” capisce egli soffriva per loro.
Tobino all’epoca si batté per questa legge?
Pur accettandola la mise in discussione, non ne era come ho detto contro, voleva solo evidenziare le problematiche che da essa potevano venire fuori, e che poi sono realmente venute. Ma, come spesso succede in Italia, venne male interpretato questo suo interesse verso i malati. Fu attaccato dalla politica, e c’e chi era con mio zio e chi era contro, non capendo il vero senso della sua “ battaglia”, lui voleva salvaguardare i malati e curali con affetto e con amore, questo era Mario Tobino medico.
Vede mio zio si trovò a curare i malati di psichiatria quando ancora non esistevano gli psicofarmaci, ed era molto difficile operare su pazienti con gravi problematiche, lui cercava di avvicinarsi a loro attraverso un dialogo, perché vede, è vero che con l’arrivo degli psicofarmaci la situazione è un po’ migliorata, ma lo psicofarmaco non cura la malattia, ne inibisce l’azione, non va a capire il vero problema, ma isola sempre più il malato.
Mario Tobino e la letteratura. Le opere di suo zio sono in tutto il modo, come si spiega questo successo letterario internazionale?
Credo alla sua sincerità nel raccontare le cose. Chiunque si può ritrovare nelle pagine dei suoi libri, perché sono scritti con l’animo, con sentimento. Lui scriveva di cose semplici, ma dentro c’era tutta la sua esperienza di vita, tutta la sua sensibilità, tutta la sua carnalità. Tutti i suoi libri sono al 90% biografici e questo la gente lo avverte e lo ha seguito.
Pensa che l’Italia è stata lontana o vicina a Mario Tobino scrittore?
Non troppo vicina. Come le ho detto lui era un tipo solitario, non si è mai voluto mescolare a nessun tipo di movimento letterario. Lui voleva essere libero, la sua libertà la viveva scrivendo, ma per scrivere doveva essere sciolto da ogni tipo di vincolo.
E da bambino come era suo zio?
Un vero indisciplinato. Le voglio raccontare una piccola marachella che mi ha raccontato mio padre, ma che spesso raccontava anche lui. Quando era giovane scappava di casa di nascosto, e una volta per andare a vedere Josephine Baher si è calato dalla grondaia di casa e scappò via in piena notte. Era molto vivace, è stato in collegio a Collesalvetti perché non amava molto studiare, e un simpatico aneddoto fu quando fece la maturità, fu accompagnato dalla sorella più grande Tilde,e quando dette l’esame di latino, credo fu interrogato sulle lodi di Orazio, fece una bellissima interrogazione e fu promosso a pieni voti. La sorella comunicò subito la bella notizia al padre ma mio nonno non ci volle credere, finche non vide lui stesso con i propri occhi che era stato promosso. Questo per dire che aveva la fama di non essere molto portato per gli studi. Poi a diciotto anni partì imbarcato su una nave per capire come era la vita di bordo, così dal nulla, insomma mio zio era un tipo veramente imprevedibile un artista a tutto tondo, un uomo che amava la vita e l’ha amata fino all’ultimo.
Mario Tobino e le donne, ci dice qualcosa?
Non si è mai sposato. Amava le donne, era un uomo passionale, sanguigno anche in quello. Li piacevano le belle, erano la sua passione, ma per tutta la vita possiamo dire che ha amato una donna in particolare, un rapporto nato nel 1943, con la signora Paola Olivetti che la conobbe quando era sposata, poi diventò vedova e da allora si sono sempre amati, mai sposati, ma amati profondamente, fino all’ultimo. Un amore vissuto da lei a Fiesole e da lui a Lucca, si incontravano ogni tanto, un amore vero, ma vissuto anche quello in totale libertà una scelta voluta da entrambi.
C’è da dire, e questo per sottolineare ancora la passione che aveva per le donne, che ad Agrigento dove fu invitato per ritirare il premio Pirandello all’età di 81 anni osannato dalle autorità e da moltissimi giovani che lui amava molto, trovò il tempo anche per corteggiare alcune donne in sala ma non anziane, ma di 40 anni, scherzava con loro, e lui alla cena di premiazione fece delle avance molto forti….la mattina dopo, morì.
Cosa gli manca di più di suo zio.
Bé….con i nipoti è sempre stato molto affettuoso, in particolare a me mi chiamava principessa… era una persona piacevole, lo ricordo ancora quando mi veniva a trovare era sempre una gran festa. Quando morì la sua compagna Olivetti, rimase molto solo, e spesso in quel periodo veniva a trovare mio padre e allora era affascinante starlo ad ascoltare, dopo le sei di sera quando si inumidiva la bocca con un po’ di vino bianco, incominciava a raccontare le sue storie, alcune erano le solite, come quella volta che era stato a vedere lo spettacolo di Ridolini, ma c’era sempre ogni volta un particolare nuovo, era un narratore che affascinava molto chi lo ascoltava, ecco cosa mi manca di mio zio quelle sere dove lui amava raccontarsi.
Un ultima domanda: quale è la cosa che non è mai stata detta su Mario Tobino e che lei vorrebbe che si dicesse?
…Eh… ce ne sarebbero molte a dire la verità, ma una in particolare mi sta a cuore, perché nessuno ne ha parlato e molte sono inedite: le sue poesie.
Le poesie che sono bellissime, sulle quali non c’è mai stato fatto un vero e proprio lavoro di critica, sono poesie che meritano di essere scoperte e riscoperte. Questo è uno dei principali obbiettivi che si pone la fondazione Mario Tobino che ha fatto e sta facendo molto.
Signora Tobino la ringrazio molto
E’stato un piacere grazie a lei.