La Legge della Giungla

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”Non capisco come si possa passare dinanzi a un albero e non essere felice di vederlo;” diceva Dostoevskij, “parlare con un uomo, e non essere felice di amarlo”. Un aforisma degno di un haiku, se avesse dignità di poema orientale sviluppato su tre sole righe, un concetto da tramandare ai posteri – già noto, eppure mai troppo compreso. È l’era del garantismo, è l’epopea del mutuo soccorso, ma c’è ancora chi soccombe sotto il regime dell’odio. Astio cieco, una “pugna” che neppure i simbolismi degli antichi potrebbero giustificare, senza ieri né domani. Se l’incoscienza incarna il coraggio, la coscienza è il metronomo della paura che attacca per difendersi: the law of the jungle. Hic sunt leones è un’obsoleta scritta su vetuste carte geografiche, ma per i moderni conquistadores suona bene, benissimo, all’occorrenza. Così, in Nigeria, città di Port  Harcourt, una ribellione iniziata anni luce or sono e alimentata da forze politico-economiche esterne, ha cinto d’assedio l’ossessione senza frontiere di migliaia di individui, seminando il terrore lungo strade di polveri e privazioni. Gruppi armati hanno preso di mira svariati edifici: hotel di lusso, stazioni di polizia e persino una discoteca. Le vittime sono già diciotto, innumerevoli i feriti; una rappresaglia che segue i falliti tentativi diplomatici del governo coi guerriglieri, e la geniale pensata di bombardarne le roccaforti per ridurli a più miti consigli. Chiamiamolo dialogo. L’utilità della forza bruta di fronte alla voce del popolo (le minoranze contano solo durante le elezioni, tutto il mondo è paese) è pari a uno zero intercambiabile solo con esso stesso. Cifra da banditi, pirateria di Stato. La stessa che in Kenya sta rivoltando le metropoli e la savana: cinquanta persone sono bruciate nel rogo doloso di una chiesa nell’area di Kimbaa; caduti e feriti di ogni tipo, età ed etnia funestano la pelle della quotidianità. Il motivo del contendere è ancora una volta politico: la riconferma di Mwai Kibaki alle presidenziali del 27 Dicembre. La fuga è in corso, la ciurma abbandona la nave mentre affonda nell’obitorio di Kisumu, travolto dalle ondate di uno strazio (in)colpevole. La Farnesina ha invitato gli italiani a non partire, le nazioni europee hanno diramato identici comunicati. E l’Africa, il continente più ricco e al tempo stesso più povero del mondo, è una polveriera incandescente. Sudan, Rwanda, Etiopia, Liberia, impensabili realtà da trattare coi guanti e con decisione, secondo le reggenze “illuminate”. Spegnere la luce sarebbe dunque meglio, perché la culla dell’umanità è stanca, terribilmente stanca di coloniche e fallaci parole, infedeli promesse, soprusi, angherie.