L’attonito e basito Mussolini di Gargnano

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LA GRANDE STORIA.Mussolini voleva creare una forma di religione laica, ma era riuscito a dar vita solo ad una liturgia. Nonostante avesse la pretesa di dominare il corso della Storia, si era sempre adattato passivamente alle circostanze.

Era andato al governo come sostenitore del più fermo liberismo per trasformarsi, a conti fatti, in uno statalista convinto. Aveva creduto nel mercato mondiale, per poi realizzare, come modello alternativo, l’autarchia, un principio antimercantilistico ed anticapitalistico basato “sull’industria chiusa”. Da ex repubblicano era diventato, grazie al “Collare dell’Annunziata”, “Cugino del Re”, da ex socialista mandava al confino i vecchi compagni della sinistra massimalista (P. Nenni), da ex anticlericale si era accordato con il Papa (i Patti Lateranensi), da ex anarcosindacalista aveva conculcato il diritto di sciopero, da acceso antimilitarista era divenuto il convinto fautore di tre guerre che hanno portato l’Italia alla rovina. Uomo da fascinazioni proletarie e di umili origini si opponeva alla stretta di mano e ad altre manifestazioni di egualitarismo democratico. Sostenitore accanito della sacralità familiare ricercava perennemente le pulci nelle alcove extraconiugali. Dopo aver firmato il patto d’acciaio con la Germania nazista, a Gargnano intrallazava segretamente con gli inglesi. Cultore della morte gloriosa in battaglia e dell’olocausto redentore e si è fatto ignobilmente catturare in divisa da soldato tedesco. Il senso della misura, la valutazione tattica delle opportunità e la prudenza calcolata, caratteristiche del suo realismo politico, erano venute meno con la contemporanea iperplasia del culto di sé e con la sfrenata passione per un’astratta grandezza a cui si sentiva arbitrariamente destinato.

            Il protagonismo di Mussolini era l’amore per la Patria, forse la fiamma ardente sentimentale più infausta per le sorti dell’Italia. Il Duce era animato dalla stessa fede di Giuseppe Mazzini, di Francesco Crispi e di Cesare Battisti. Probabilmente ne concepiva, addirittura con maggior energia, l’immensità ideale. La viveva, tuttavia, non con la tetragona pacatezza che s’impone al consapevole statista, bensì si lasciava vulnerare dalle frequenti incoerenze di un estro sensibile alle sollecitazioni dell’emergenze politiche e ancor più dalla crescente febbre di una irrefrenabile ambizione, il peggiore degli stimoli per un uomo di Stato con responsabilità di governo. In quei momenti, infatti, il gesto della sua mano non era largo quanto l’egoistico orgoglio che lo pungolava. “L’amore per la Patria”, ha detto Giuseppe Mazzini, “non può essere una passione sfrenata e incontrollabile, bensì un culto sommesso, consacrato nella diuturna fatica umana. Per la Patria ognuno ha il diritto di sacrificare anche la propria vita, tutto, ma non l’oggetto stesso del proprio amore”.

         Pur astraendo dalle scorribande filosofiche con le quali di tanto in tanto amava giocherellare, la posizione mentale e spirituale del dittatore (un atteggiamento paternalistico intinto di aulico mecenatismo che si addiceva più ad un esteta, magari ad uno Storico, ma non ad un uomo politico) non gli ha permesso mai di scorgere chiaramente, di afferrare in modo completo e di intendere compiutamente il significato reale del concetto di Stato. Il suo metodo di governare, dai vasti spazi ove pretendeva di operare, si riduceva ordinariamente a transeunti manipolazioni di giornata o ad astrusi giochi di palazzo. Un cipiglio censorio, mascherando un sottostante vacuo retore, rispecchiava l’energia dei momenti psicologici che dominavano il suo pensiero, guidandolo, con il concorso di una poco acuta sensibilità d’osservazione, ad un irrazionale modo di concepire l’etica politica.

         Di solito siamo portati ad idealizzare, anche in senso negativo, gli uomini e a raffigurarceli tutto di un pezzo, ma essi non sono mai stati tali da quando ha fruttificato il seme di Adamo. Comunque sia, siffatta ricostruzione monolitica mal si addice ad un personaggio come Mussolini che è stato l’incarnazione di contrasti stridenti: a volte era magnanimo, mite e generoso, a volte era angusto ed inutilmente spietato. Non ha mai avuto il dono avventuroso di conoscere l’animo umano (una ricchezza infinita di passioni) e il suo orizzonte spirituale non è stato in alcun modo più vasto. Così la tragedia che covava nel suo spirito in tumulto si è convertita nella sventura di tutto un popolo. Uno spirito intorbidato da incomposti eccitamenti in cui si ingorgavano irragionevoli ispirazioni che ne frastornavano la capacità di procedere a quelle sistemazioni psicologiche senza le quali è impossibile sorreggere gli assunti ed esplicare la difficile arte del comando: la delezione delle impressioni, il raffrenamento degli impulsi, la cauta maturazione dei propositi.

          Mussolini alla realtà aveva sostituito il sogno, all’azione la speranza, al pesante fardello della vita le labili suggestioni della fantasia. Tali erano le risultanze di quel dramma cupo e profondo. La mano che un giorno aveva saputo reggere le discordanti forze nazionali e vigorosamente costringerle a collaborare tra loro alla fine era ricaduta inerte, stringendo tra le dita solo un pugno di mosche. Alla conclusione dei giochi ha incrociato le braccia e con l’occhio fisso allo stellone dell’Italia dimezzata aspettava il portento che la Dea della fortuna avrebbe dovuto compiere dopo essersi assisa non su di un tronco maestoso, ma bensì su di un cumulo di ruderi diroccati. Ma la dolorosa realtà era chiara ed inconfutabile come un dovere militaresco. Iscritto alla gara, il Duce non si ritraeva per restare sul campo come se fosse un corpo vertebrato da un’unica spina. Un individuo svuotato, fragile, terreo, con gli zigomi pronunciati sulle gote scavate e con lo sguardo allucinato e sperso nel vuoto: così appare il capo del fascismo repubblicano nell’immagine che lo ritrae mentre sta visitando, con gli occhi di un toro cretese, il sacrario di Gabriele D’Annunzio a Gardone. La coreografia non era da meno e le corone d’alloro in onore del Vate fungevano da degna cornice alle esequie di un uomo, una figura soltanto ornamentale, che aveva l’espressione di colui che assiste impotente al proprio funerale.

         Attediate dalla lunga consuetudine con la tristezza, le pupille sconsolate di un uomo cresciuto nel mito della rivoluzione, forgiatosi nelle trincee della grande guerra e diventato capo indiscusso di un paese che avrebbe dovuto rinverdire i fasti sontuosi dell’antica Roma, scrutavano, ammiccavano e seducevano, ma non abbagliavano più. Le orecchie, abituate al frastuono di una voce con la pienezza di un coro, soffrivano nell’ascoltare il petulante e stereotipato borbottio con cui dialogava in solitaria meditazione, usando metaforiche parole congeniali al clima crepuscolare dell’Italia governata dal fascismo repubblicano. Dopo aver suonato la gran cassa della guerra con la baldanzosa prosopopea di un baccelliere, l’amarezza del rimpianto per le cose irrimediabilmente perdute (le colonie e non solo) era disarmante: invano  Mussolini, tenuto in piedi dal labile collante di una allucinata disperazione mista ad una patetica fede, si affannava sforzandosi per scacciarne il penoso richiamo. In quei momenti di sconforto il dittatore sentiva l’impellente bisogno di biade e di rugiade, di compiacente sostegno, di pane fresco e di sudore genuino derivato dalla fatica fisica e non dalla paura. Aveva il rancore dei forti che patiscono la vergogna ed il tremito dei vergini virgulti quando sono oppressi dalla turpe menzogna.

       Per giustificare il fallimento di una vita cercava di vivere su di una pianta della quale negava i frutti dopo averne tagliato le radici. A volte negli occhi sgranati gli si poteva leggere un’allarmante apprensione, se non una vera e propria paura, che rispecchiava l’incertezza del comportamento e la scarsa attenzione indagatrice con la quale osservava gli uomini e le cose di cui era popolato il suo squallido mondo esteriore. Il vecchio amor proprio, retaggio della vita disagiata di Dovia e delle randagie giornate svizzere quando doveva pagarsi un amore mercenario e dormire all’adiaccio avvolto nel cappotto, era scomparso come lo erano pure gli sforzi che allora aveva fatto per sopravvivere dignitosamente in quella situazione.

      Alla fine del suo “prometeico” cammino, il Duce, spinto da un cupo demone e con gli occhi dell’assetato davanti ad una fontana, si è avviato con passi esitanti, guidati da una sottile sensazione di paura, verso quello che sarà il luogo del suo explicit finale. Dimentico di sé stesso, di una vita vissuta tra le battaglie ed i rischi, incurante del rispetto degli altri e della Storia, che non assolve perché pesa ogni atto dell’uomo su di una bilancia inesorabile, Mussolini va stancamente verso la morte, come un calepino ambulante, mezzo turbato da fieri propositi di una fine eroica in Valtellina, mezzo affascinato dalla pretesa di potersi difendere in un domani, utilizzando fiumi di parole e giocando su vecchi e nuovi equivoci che lo potranno far galleggiare indefinitamente sullo scontro degli opposti giudizi, in modo analogo a quello che fa il sargasso quando resta immobile nel vorticoso turbinare delle correnti.

      La fine atroce del leader fascista, un epilogo inevitabile stante le premesse, ha raggiunto le dimensioni della tragedia non per la luce che ne è irradiata, ma per le terrificanti ombre che il modo con cui è avvenuta ha disteso sulla più recente storia d’Italia. Per questo molti italiani, ricordando inconsciamente nell’intimo dei misteri ancestrali le linee del nostro turbinoso passato e divinando il senso del futuro, hanno relegato la figura di Mussolini nella penombra delle reiette avventure. Ciò a prescindere dalle indeclinabili predisposizioni dei secoli per i vinti e dal vezzo delle distanziate riabilitazioni.