Barack Obama visto dall’Italia, impariamo a conoscerlo

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Poco più di un anno fa il quarantenne senatore americano Barack Hussein Obama manifestò la volontà di candidarsi nel Partito Democratico per la prossima presidenza degli Stati Uniti. Stranamente subito scoppiò in seno alla comunità nera una polemica, riportata dal New York Times, sull’idea stessa di essere nero negli Stati Uniti. I più tradizionalisti dei neri sostenevano che essere nero significa avere nel proprio DNA e nella memoria, sia tramandata dagli antenati che di vita personale, l’esperienza della schiavitù e della vita diseredata dei ghetti delle grandi metropoli.

Tutto questo è ignoto a lui, nato da madre bianca americana e da padre keniota, cresciuto nella ricchezza e nell’abbondanza (in the lap of luxury) delle isole Haway, in ambiente fortemente multietnico, con numerosissime presenze d’origine asiatica ed ispanica. Da bambino ha avuto esperienze di vita lontana dagli Stati Uniti, per qualche anno ha frequentato scuole coraniche in Birmania, dove si era trasferita la madre. Poi è tornato nelle Haway, dove ha frequentato la migliore scuola multietnica del luogo e si è distinto nella scrittura. Poi studi di giurisprudenza a Los Angeles completati a New York, alla Columbia University.

Dunque, questo candidato ha cultura e modi cosmopoliti, lontanissimi anni luce da quell’America che ha eletto tanti presidenti appartenenti ai WASPS (White Anglo-American Protestants, Protestanti Anglo Americani bianchi), l’élite bianca del New England, della costa est, ovvero degli Stati formatisi dalle prime colonie inglesi. Si sosteneva un anno fa che non è il colore della pelle a fare una persona, ma la sua cultura. Pertanto Obama non poteva assolutamente essere un rappresentante dei neri, ma doveva essere considerato solo come americano, un brillante risultato del melting pot, grande calderone che tutto rimescola, cambia e trasforma in nome del sogno americano.

Oggi Barack Obama può permettersi di fare una campagna elettorale con degli slogan semplicissimi, “Change, Yes, We can” Ripetendo e scandendo forte queste parole, che anche un nostro bambino delle elementari può capire in inglese, ha stravinto una serie di primarie. Va citata la vittoria strepitosa in Sud Carolina, stato che nel XIX secolo perse 150.000 dei suoi uomini bianchi di recentissima origine europea, per difendere il diritto di proprietà e commercio di carne umana nera. Migliaia di eredi degli schiavi, un fiume umano, si sono recati alle urne, per lui. Per la prima volta in vita loro.Ripetendo e scandendo quelle semplici parole si é potuto permettere di dire ad Hillary Rodham Clinton, sessant’anni, di cui otto trascorsi alla Casa Bianca, che lei rappresenta il passato, e non il futuro.

E’ questo fenomeno che fa nascere una speranza, ed insieme un incubo. Lo slogan “Change, yes, we can” attrae l’attenzione e risuscita le speranze dei neri più diseredati, degli ispanici, degli immigrati recenti, di quelli che hanno bruciato a contatto con la realtà il loro sogno americano. E’ un altro aspetto del sogno americano, dunque, quello che fa emergere l’americano di colore Barack Hussein Obama . Il sogno del venir meno delle differenze economiche e culturali troppo marcate dipendenti dall’etnia di provenienza, e quindi incolmabili. Suscita il sogno di colmarle, a completamento dell’ovvio sogno dell’arricchimento rapido, nel perseguimento della felicità (the pursuit of happiness).

In parallelo a questo emerge nell’élite wasp – e nella classe media bianca, benestante – di religione protestante ed orgogliosa espressione di valori patriottici, l’incubo che ciò possa accadere veramente. L’incubo consiste nel fatto che milioni di afroamericani, ispanici ed asiatici di recente immigrazione possano cambiare con il loro voto i rapporti di forze nel mondo politico del Nord America. L’incubo che l’America debba cambiare se stessa oltre che pretendere di andare a cambiare gli altri. E’ per questo incubo che servizi di sicurezza straordinari sono stati messi intorno a quest’uomo tanto carismatico, onirico e profetico, mosso e sollevato da terra col petto di uomini bianchi e neri che devono proteggerlo da quei proiettili che qualche decennio fa fecero un mito di JFK e di suo fratello Bob.

Un sogno o un incubo anche per noi.