La parola di Dio nella vita di Cristo
In vista del Sinodo dei vescovi del prossimo Ottobre, ho pensato di dedicare la predicazione quaresimale di quest’anno al tema della Parola di Dio. Mediteremo successivamente sull’annuncio del vangelo nella vita di Cristo, cioè sul Gesú “che predica”, sull’annuncio nella missione della Chiesa, cioè sul Cristo “predicato”, sulla parola di Dio come mezzo di santificazione personale, la lectio divina, e sul rapporto tra lo Spirito e la Parola, in pratica la lettura spirituale della Bibbia.
Iniziamo questa predicazione nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa della Cattedra di san Pietro e questo non è senza significato per il nostro tema. Ci offre anzitutto l’occasione per rendere l’omaggio del nostro affetto e devozione a colui che siede oggi sulla cattedra di Pietro, il Santo Padre Benedetto XVI. Ci ricorda poi quello che lo stesso apostolo Pietro scrive nella sua Seconda Lettera, che, cioè, “nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione” (2 Pt 1, 20) e che perciò ogni interpretazione della parola di Dio deve commisurarsi con la vivente tradizione della Chiesa, la cui interpretazione autentica è affidata al magistero apostolico e, in modo singolare, al magistero petrino.
È bello, in una circostanza come questa e nel contesto del dialogo ecumenico attuale, ricordare un noto testo di sant’Ireneo: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo … Con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente (propter potentiorem principalitatem), deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte –essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli apostoli”1.
Con questo spirito, non senza timore e tremore, mi accingo a presentare le mie riflessioni sul tema vitale della parola di Dio, in presenza del successore di Pietro, vescovo della Chiesa di Roma.
1. La predicazione nella vita di Gesú
Dopo il racconto del battesimo di Gesù, 1’evangelista Marco prosegue la sua narrazione dicendo: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 14 s.). Matteo scrive più brevemente: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Con queste parole inizia il “Vangelo”, inteso come la buona notizia “di” Gesú – cioè recata da Gesù e di cui Gesù è il soggetto -, diversa dalla buona notizia “su” Gesú della successiva predicazione apostolica, in cui Gesú è l’oggetto.
Si tratta di un evento che occupa un posto ben preciso nel tempo e nello spazio: avviene “in Galilea”, “dopo che Giovanni fu arrestato”. Il verbo usato dagli evangelisti “incominciò a predicare” mette fortemente in rilievo che si tratta di un “inizio”, di un qualcosa di nuovo non solo nella vita di Gesù, ma nella storia stessa della salvezza. La Lettera agli Ebrei esprime così la novità: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Comincia un tempo particolare di salvezza, un kairos nuovo, che si estende per circa due anni e mezzo (dall’autunno del 27, alla primavera del 30 d.C.).
Gesù attribuiva a questa sua attività una tale importanza, da dire di essere stato mandato dal Padre e consacrato con l’unzione dello Spirito proprio per questo, cioè “per annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). In un’occasione, mentre alcuni volevano trattenerlo, sollecita gli apostoli a partire dicendo loro: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche lì; per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).
La predicazione fa parte dei cosiddetti “misteri della vita di Cristo” ed è come tale che noi ci accostiamo ad esso. Con la parola “mistero” si intende, in questo contesto, un evento della vita di Gesù portatore di un significato salvifico, che come tale viene celebrato dalla Chiesa nella sua liturgia2. Se non esiste una specifica festa liturgica della predicazione di Gesù, è perché essa è ricordata in ogni liturgia della Chiesa. La “liturgia della parola” nella Messa altro non è che 1’attualizzazione liturgica del Gesù che predica. Un testo del Concilio Vaticano II dice: “Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”3.
Come, nella storia, dopo aver predicato il regno di Dio, Gesù andò a Gerusalemme per offrirsi in sacrificio al Padre, così, nella liturgia, dopo aver nuovamente proclamato la sua parola, Gesù rinnova l’offerta di sé al Padre attraverso l’azione eucaristica. Quando, alla fine del prefazio, diciamo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore: Osanna nell’alto dei cieli”, ci riportiamo idealmente a quel momento in cui Gesù entra in Gerusalemme per celebrarvi la sua Pasqua; lì finisce il tempo della predicazione e inizia il tempo della passione.
La predicazione di Gesù è dunque un “mistero” perché non contiene solo la rivelazione di una dottrina, ma spiega il mistero stesso della persona di Cristo; è essenziale per capire sia ciò che precede – il mistero dell’incarnazione -, sia ciò che segue: il mistero pasquale. Senza la parola di Gesù, essi sarebbero eventi muti. È stata una felice intuizione quella di Giovanni Paolo II di inserire la predicazione del Regno tra i “misteri della luce” da lui aggiunti ai misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi del Rosario, accanto al battesimo di Cristo, le nozze di Cana, la trasfigurazione e l’istituzione dell’Eucaristia.
2. La predicazione di Cristo continua nella Chiesa
L’autore dell’epistola agli Ebrei scriveva parecchio tempo dopo la morte di Gesù, dunque molto dopo che Gesù aveva smesso di parlare; eppure dice che Dio ci ha parlato nel Figlio “ultimamente, in questi giorni”. Considera, dunque, i giorni in cui vive come facenti parte dei “giorni di Gesú”. Per questo, poco oltre, citando la parola del salmo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”, la applica ai cristiani dicendo: “Guardate fratelli, che non si trovi tra voi qualcuno dal cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente; esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo oggi” (cf. Eb 3, 7s.).
Dio parla, dunque, anche oggi nella Chiesa e parla “nel Figlio”. “Dio – si legge nella Dei Verbum – il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito santo, per mezzo del quale la viva voce del vangelo risuona nella chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la parola di Cristo” 4.
Ma come e dove possiamo ascoltare questa “sua voce”? La rivelazione divina è chiusa; in un certo senso, non ci sono più parole di Dio. Ed ecco che scopriamo un’altra affinità tra Parola ed Eucaristia. L’Eucaristia è presente in tutta la storia della salvezza: nell’Antico Testamento, come figura (l’agnello pasquale, il sacrificio di Melchisedec, la manna), nel Nuovo Testamento, come evento (la morte e risurrezione di Cristo), nella Chiesa, come sacramento (la Messa).
Il sacrificio di Cristo è finito e concluso sulla croce; in un certo senso, dunque, non ci sono più sacrifici di Cristo; eppure sappiamo che c’è ancora un sacrificio ed è l’unico sacrificio della Croce che si fa presente e operante nel sacrificio eucaristico; l’evento continua nel sacramento, la storia nella liturgia. Una cosa analoga avviene per la parola di Cristo: essa ha cessato di esistere come evento, ma esiste ancora come sacramento.
Nella Bibbia, la parola di Dio (dabar), specie nella forma particolare che assume nei profeti, costituisce sempre un evento; è una parola-evento, cioè una parola che crea una situazione, che attua sempre qualcosa di nuovo nella storia. L’espressione ricorrente: “la parola di Jahvè venne a …”, potrebbe essere tradotta con: “la parola di Jahvè assunse forma concreta in …” (in Ezechiele, in Aggeo, in- Zaccaria, ecc.).
Tale tipo di parola-evento si protrae fino a Giovanni Battista; in Luca leggiamo infatti: “Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare…, la parola di Dio scese su (factum est verbum Domini super) Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3, 1 ss.). Dopo questo momento, tale formula scompare del tutto dalla Bibbia e al suo posto ne compare un’altra; non più: “Factum est verbum Domini», ma: “Verbum caro factum est»: la Parola si è fatta carne (Gv 1, 14). L’evento adesso è una persona! Mai si incontra la frase: “la parola di Dio venne su Gesú”, perché egli è la Parola. Alle realizzazioni provvisorie della parola di Dio nei profeti, succede ora la realizzazione piena e definitiva.
Donandoci il Figlio – scrive S. Giovanni della Croce – Dio ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare. Dio è diventato, in un certo senso, muto, non avendo più nulla da dire 5. Ma bisogna intendersi bene: Dio è diventato muto nel senso che non dice cose nuove rispetto a quello che ha detto in Gesù, ma non nel senso che non parla più; egli dice sempre nuovamente ciò che ha detto una volta in Gesù!
3. La parola sacramento che si ode
Non ci sono più parole-evento nella Chiesa, ci sono però parole-sacramento. Le parole-sacramento sono le parole di Dio “avvenute” una volta per sempre e raccolte nella Bibbia, che tornano ad essere “realtà attiva” ogni volta che la Chiesa le proclama con autorità e lo Spirito che le ha ispirate torna ad accenderle nel cuore di chi le ascolta. “Egli prenderà del mio e ve lo annuncerà”, dice Gesú dello Spirito Santo (Gv 16,14).
Quando si parla della Parola come “sacramento”, si prende questo termine non nel senso tecnico e ristretto dei “sette sacramenti”, ma nel senso più ampio per cui si parla di Cristo come del “primordiale sacramento del Padre” e della Chiesa come dell’“universale sacramento di salvezza” 6. Tenendo presente la definizione che sant’Agostino da del sacramento come “una parola che si vede” (verbum visibile)7, si è soliti definire, per contrasto, la parola “un sacramento che si ode” (sacramentum audibile).
In ogni sacramento si distingue un segno visibile e la realtà invisibile che è la grazia. La parola che leggiamo nella Bibbia, in se stessa, non è che un segno materiale (come l’acqua e il pane), un insieme di sillabe morte, o, al massimo, una parola del vocabolario umano come le altre; ma intervenendo la fede e l’illuminazione dello Spirito Santo, attraverso tale segno noi entriamo misteriosamente in contatto con la vivente verità e volontà di Dio e ascoltiamo la voce stessa di Cristo.
“Il corpo di Cristo, scrive Bossuet, non è più realmente presente nel sacramento adorabile, di quanto la verità di Cristo lo sia nella predicazione evangelica. Nel mistero dell’Eucaristia le specie che vedete sono dei segni, ma ciò che in esse è racchiuso è lo stesso corpo di Cristo; nella Scrittura, le parole che ascoltate sono dei segni, ma il pensiero che vi recano è la verità stessa del Figlio di Dio” .
La sacramentalità della parola di Dio si rivela nel fatto che a volte essa opera manifestamente al di là della comprensione della persona, che può essere limitata e imperfetta, opera quasi per se stessa, ex opere operato, come si dice in teologia.
Quando il profeta Eliseo disse a Naaman il siro, che era andato da lui per essere guarito dalla lebbra, di lavarsi sette volte nel Giordano, questi replicò sdegnato: Forse l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito? (2 Re 5, 12). Naaman aveva ragione: i fiumi della Siria erano senz’altro migliori e più ricchi di acque; eppure, bagnandosi nel Giordano egli fu guarito e la sua carne divenne come quella di un giovinetto, cosa che non sarebbe mai avvenuta se si fosse bagnato nei grandi fiumi del suo paese.
Così è della parola di Dio contenuta nelle Scritture. Tra le genti e anche nella Chiesa vi sono stati e vi saranno libri migliori di alcuni libri della Bibbia, più raffinati letterariamente e più edificanti religiosamente (basti pensare a L’Imitazione di Cristo), e tuttavia nessuno di essi opera come opera il più modesto dei libri ispirati. C’è, nelle parole della Scrittura, qualcosa che agisce al di là di ogni spiegazione umana; esiste una sproporzione evidente tra il segno e la realtà da esso prodotta, che fa pensare, appunto, all’agire dei sacramenti.
Le “acque d’Israele”, che sono le Scritture divinamente ispirate, continuano anche oggi a guarire dalla lebbra dei peccati; finito di leggere il brano evangelico della Messa, la Chiesa invita il ministro a baciare il libro e a dire: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati”(per evangelica dicta deleantur nostra delicta). Il potere risanante della parola di Dio è attestato nella stessa Scrittura: “Non li guarì né un’erba né un emolliente, si dice del popolo d’Israele nel deserto, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana” (Sap 16,12).
L’esperienza lo conferma. Ho sentito una persona rendere questa testimonianza in un programma televisivo al quale prendevo parte. Era un alcolizzato all’ultimo stadio; non resisteva più di due ore senza bere; la famiglia era sull’orlo della disperazione. Lo invitarono con la moglie a un incontro sulla parola di Dio. Lì qualcuno lesse un brano della Scrittura. Una frase lo attraversò come una fiammata di fuoco e sentì che era guarito. In seguito ogni volta che era tentato di bere, correva a riaprire la Bibbia in quel punto e solo al rileggere le parole sentiva la forza ritornare in lui, finché ora era del tutto guarito. Quando volle dire quale era la frase, la voce gli si ruppe dalla commozione. Era la parola del Cantico dei cantici: “ Le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1,2). Queste semplici parole, apparentemente estranee al suo caso, avevano compiuto il miracolo. Un episodio analogo si legge nei Racconti di un pellegrino russo. Ma il caso più celebre è quello di Agostino. Leggendo le parole di Paolo in Romani 13, 11 ss.: “Gettiamo via le opere delle tenebre…Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non fra impurità e licenze”, egli sentì “una luce di serenità” balenargli nel cuore e capì che era guarito dalla schiavitù della carne8.
4. La liturgia della parola
C’è un ambito e un momento nella vita della Chiesa in cui Gesú parla oggi nel modo più solenne e più sicuro ed è la liturgia della parola nella Messa. Nei primordi della Chiesa la liturgia della parola era distaccata dalla liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiera insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cf. Atti 2, 43).
Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte della comunità ebraica, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto orientato al Cristo. Fu così che anche l’ascolto della Scrittura si trasferì dal tempio e dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, divenendo l’attuale liturgia della parola che precede la preghiera eucaristica.
San Giustino, nel II secolo, da una descrizione della celebrazione eucaristica in cui sono ormai presenti tutti gli elementi essenziali della futura Messa. Non solo la liturgia della parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancare ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli”, cioè i vangeli e le lettere, in pratica il Nuovo Testamento.
Ascoltate nella liturgia, le letture bibliche acquistano un senso nuovo e più forte di quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo appare in modo quasi programmatico nell’episodio dei due discepoli di Emmaus: fu ascoltando la spiegazione delle Scritture che il cuore dei discepoli cominciò a sciogliersi, sicché furono poi capaci di riconoscerlo allo spezzare il pane.
Un esempio tra tanti: le letture della XXIX Domenica del tempo ordinario del ciclo B. La prima lettura è un brano sul servo sofferente che si addossa le iniquità del popolo (Is 53, 2-11); la seconda lettura parla di Cristo sommo sacerdote provato in tutto come noi, eccetto il peccato; il brano evangelico parla del Figlio dell’uomo che è venuto a dare la sua vita in riscatto per molti. Insieme questi tre brani mettono in luce un aspetto fondamentale del mistero che si sta per celebrare e ricevere nella liturgia eucaristica.
Nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma rivissuti; la memoria diventa realtà e presenza. Ciò che avvenne “in quel tempo”, avviene “in questo tempo”, “oggi” (hodie) come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.
Anche qui alcuni esempi aiuteranno a capire. Si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente…Si legge di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, colui che è venuto a portare il fuoco sulla terra…Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici e noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane…
La cosa diventa ancora più chiara se dall’Antico Testamento passiamo al nuovo, dalla prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesú: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del suo mantello? Una volta ascoltavo nel vangelo l’episodio di Zaccheo e fui colpito dalla sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si poteva dire: “È andato ad alloggiare da un peccatore!” ed era a me, dopo averlo ricevuto nella comunione, che Gesú diceva: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”.
Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico a cui Gesú dice: “Ti sono rimessi i tuoi peccati” e “Alzati e va a casa tua”, con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesú, con Tommaso che tocca tremante le sue piaghe? Nella celebrazione feriale, il vangelo di oggi, Venerdì della seconda settimana di Quaresima, è la parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33-45): “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio!”. Ricordo l’effetto di queste parole su di me mentre le ascoltavo una volta piuttosto distrattamente. Quello stesso Figlio stava per essere dato a me nella comunione: ero io preparato a riceverlo con il rispetto che il Padre celeste si aspettava?
Non solo i fatti ma anche le parole del vangelo ascoltate nella Messa acquistano un senso nuovo e più forte. Un giorno d’estate, mi trovavo a celebrare la Messa in un piccolo monastero di clausura. C’era, come brano evangelico, Matteo 12. Non dimenticherò mai l’impressione che mi fecero quelle parole di Gesù: “Ecco, ora qui c’è più di Giona… Ecco ora qui c’è più di Salomone”. Era come se le ascoltassi in quel momento per la prima volta. Capivo che quei due avverbi “ora” e “qui” significavano veramente ora e qui, cioè in quel momento e in quel luogo, non soltanto nel tempo in cui Gesù era sulla terra, tanti secoli fa. Da quel giorno d’estate, quelle parole mi sono diventate care e familiari in un modo nuovo. Spesso, nella Messa, al momento in cui mi genufletto e mi rialzo dopo la consacrazione, mi viene da ripetere dentro di me: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone! Ecco, ora qui c’è più di Giona!”
“Voi che siete soliti prendere parte ai divini misteri, diceva Origene ai cristiani del suo tempo, quando ricevete il corpo del Signore lo conservate con ogni cautela e ogni venerazione perché nemmeno una briciola cada a terra, perché nulla si perda del dono consacrato. Siete convinti, giustamente, che sia una colpa lasciarne cadere dei frammenti per trascuratezza. Se per conservare il suo corpo siete tanto cauti – ed è giusto che lo siate -, sappiate che trascurare la parola di Dio non è colpa minore che trascurare il suo corpo” 9.
Tra le tante parole di Dio che ogni giorno ascoltiamo nella Messa o nella Liturgia delle ore, ce n’è quasi sempre una destinata in particolare a noi. Da sola, essa può riempire l’intera nostra giornata e illuminare la nostra preghiera. Si tratta di non lasciarla cadere nel vuoto. Diverse sculture e bassorilievi dell’antico oriente mostrano lo scriba in atto di raccogliere la voce del sovrano che detta o parla: lo si vede tutto attenzione: gambe accavallate, busto eretto, occhi spalancati, orecchi protesi. È l’atteggiamento che in Isaia viene attribuito al Servo del Signore: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50, 4). Così dovremmo essere noi quando viene proclamata la parola di Dio.
Accogliamo dunque come rivolta a noi l’esortazione che che si legge nel Prologo della Regola di san Benedetto: “Aperti i nostri occhi alla luce divina, ascoltiamo con orecchie attente e piene di stupore la voce divina che ogni giorno si rivolge a noi e grida: Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore, e ancora: Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Sal 94, 8)” 10.
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1 S. Ireneo, Adv. Haer. III, 2.
2 Cf. S. Agostino, Lettere, 55, 1,2.
3 Sacrosanctum concilium 7.
4 Dei Verbum, 8.
5 Cf. S. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo II, 22, 4-5.
6 Cf. Lumen Gentium, 48.
7 S. Agostino, Trattati sul vangelo di Giovanni, 80,3;
8 S. Agostino, Confessioni, VIII,12.
9 Origene, In Exod. hom. XIII, 3.
10 Regole monastiche d’occidente, Qiqajon, Comunità di Bose, 1989, p. 53.