caso Moro- cap3

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Questa Comissione era presieduta dal professor V. Cappelletti, vicedirettore dell’Enciclopedia Treccani e amico fraterno di F. Cossiga. Il professor Cappelletti era un adepto della setta del reverendo Moon, una congrega americana anticomunista perinde ac cadaver che veniva largamente sovvenzionata dalla CIA. Il professore ha anche detto che A. Moro non avrebbe dovuto lottare per cercare un improbabile salvezza, ma accettare serenamente la morte come avevano fatto i martiri nel circo Flavio del Colosseo romano. Un altro consulente del Viminale, un americano convocato direttamente dal ministro degli Interni F. Cossiga, è stato il professor S. Pieczenik, vice assistente del segretario di Stato americano (H. Kissinger) e all’epoca del delitto Moro uno dei maggiori esperti mondiali nel combattere i sequestri di persona. Come il professor Cappelletti anche il consulente psichiatra statunitense non venne in Italia per contribuire, da luminare nel campo dei rapimenti qual’era, a liberare l’illustre prigioniero, ma per garantire, attraverso il “martirio” di Moro, che la linea politica morotea di coinvolgimento del PCI nella maggioranza governativa non prendesse mai piede.

      F. Cossiga ed i suoi consulenti privati, italiani e USA, aveva approvato un piano (piano Mike, M come “morto”) da attuare nel caso in cui Moro fosse stato ucciso. Il piano venne trasmesso alle autorità competenti il 5 maggio 1978, quattro giorni prima dell’avvenuta esecuzione. Strana coincidenza il quanto il leader democristiano era prigioniero da 51 giorni e mai prima di allora il Viminale aveva predisposto iniziative da mettere in cantiere se si fosse verificato l’epilogo infausto. Qualora il presidente della Dc fosse sopravvissuto al sequestro era previsto il suo internamento in un Istituto psichiatrico (Policlinico Gemelli) (piano Viktor, V come “vivo”) dove sarebbe stato sottoposto ad un trattamento psicologico riabilitativo che avrebbe curato la presunta sintomatologia da lui presentata durante la reclusione (una diagnosi di comodo), ossia i disturbi emotivi conseguenziali alla “Sindrome di Stoccolma”, una patologia in cui la vittima diventa oggetto di facile plagio da parte dei suoi carcerieri (“lavaggio del cervello”).     

       Nell’ottobre del 1978, pochi mesi dopo la morte di Moro, il Partito Popolare Europeo (PPE), il movimento di Lyndon La Rouche, pubblicò un volume intitolato “Chi ha ucciso Aldo Moro?”. Il documento del PPE  attribuiva la strage di via Fani e l’omicidio di A. Moro ai servizi segreti britannici, i capifila del terrorismo e delle strutture “deviate” presenti negli altri organismi d’Intelligence occidentali. Nel libro del PPE , F. Cossiga viene definito “una pedina fondamentale nello scenario terrorista britannico in Italia”. Una opinione che si evince anche leggendo l’opera di S. Flamigni intitolata “Convergenze parallele” (Kaos, 1998). F. Cossiga è stato allevato politicamente da A. Segni che insieme a M. Scelba rappresentava la corrente anglofila della DC (la destra oligarchica democristiana). Segni si formò ideologicamente in compagnia di D. Grandi, il gerarca fascista amico degli inglesi, con il quale fondò e diresse una rivista giuridica. Da Segni, F. Cossiga ricevette in eredità la rappresentanza politica dell’oltranzismo atlantista, impersonificato dalla CIA e dal suo equivalente anglosassone (MI6), che cercò di innestare con successo negli apparati dei servizi di sicurezza e nelle più alte gerarchie militari italiane.

         In linea con quanto fin qui esposto, sono le dichiarazioni di C. Guerzoni, ex segretario di A. Moro durante gli anni di piombo: “In occasione del sequestro Moro, il comportamento della CIA fu molto strano. Dichiarò che non poteva intervenire perché una norma del Congresso americano le consentiva l’intervento solo nel caso in cui fosse stato messo in pericolo l’interesse del popolo o dello Stato USA. Poiché gli Stati Uniti erano attentissimi a ciò che si verificava in Italia, nel tentativo di impedire che il Paese mediterraneo si spostasse troppo a sinistra verso i comunisti, è molto curioso che il rapimento da parte delle BR di un ex presidente del Consiglio, in quel momento presidente del partito di maggioranza, non fosse motivo sufficiente per intervenire con tempestività”.

     R. Priore, l’ex Giudice Istruttore responsabile dell’inchiesta sulla strage di via Fani e sull’omicidio del presidente della DC, ha detto: “Ai tempi del sequestro Moro, insieme a Ferdinando Imposimato, abbiamo cercato di interpretare i messaggi delle BR e di dare una dimensione internazionale al rapimento del leader democristiano. La tecnica con cui è stato rapito è la fotocopia di quella adottata in Germania per rapire H. M. Schleyer, il presidente della Confindustria tedesca sequestrato il 5 settembre 1977 dalla Rote Armee Fraktion (RAF). Caso strano la RAF, pesantemente infiltrata dalla CIA e dal MOSSAD, nel 1978 non mette a segno alcuna azione terroristica. Riprenderà soltanto nel 1979 dopo la tragica conclusione dell’operazione Moro”.

     L’avvocato socialista G. Guiso, confidente di B. Craxi e difensore dei capi storici delle BR (A. Franceschini e R. Curcio) custoditi in carcere, ha più volte dichiarato che “i terroristi già condannati o in attesa di condanna hanno fatto di tutto per salvare la vita di A. Moro. La sostanza del suo ragionamento è che “qualcosa” ha impedito loro di giungere ad un accordo. Qualsiasi cittadino è in grado di capire come questo “qualcosa” non possa essere stata solo la fermezza delle Istituzioni. Si domanda l’avvocato Guiso: <Può avere svolto un ruolo determinante la CIA?>”. Secondo lui ha sicuramente influito il cosiddetto “Noto Servizio” o “Anello”, una struttura occulta che operava a livello superiore rispetto ai servizi segreti e che non era di certo insensibile alle sollecitazioni americane vista la sua estrazione estremista di destra e apertamente filoatlantica. Il penalista Guiso ha anche affermato: “Moro non è stato salvato perché non lo si è voluto salvare. Le BR sono arrivate ad uccidere il presidente della Dc perché sono state costrette a farlo. Quindi qualcuno (all’interno o all’esterno) le ha obbligate a comportarsi in quel modo”. Lo scrittore A. Giovagnoli, bene informato sui retroscena del caso Moro, ha sentenziato: “La responsabilità della morte di Moro è di chi l’ha ucciso, dei suoi compagni e dei loro sostenitori, nonché dei loro mandanti occulti nazionali ed internazionali”.     

        G. Pellegrino, che già conosciamo, ha così risposto a certe domande sulla dinamica del sequestro Moro: “Se si osserva la genesi e l’evoluzione del terrorismo rosso, ci si accorge che elementi ambigui (dal punto di vista ideologico e da quello dei collegamenti) esistevano al suo interno fin dall’inizio. Naturalmente in qualche caso poteva trattarsi di persone doverosamente infiltrate nelle BR per meglio conoscerle e quindi per meglio combatterle. In qualche altro caso, però, l’ambiguità di certi personaggi era tale da far pensare ad un ruolo diverso da quello del semplice infiltrato”. Il Pellegrino ha poi aggiunto: “Quando la trattativa di fatto (per liberare Moro) si era positivamente conclusa, Moro venne intercettato da chi lo voleva morto: fu ammazzato proprio mentre stava per essere salvato. E’ un’ipotesi agghiacciante, ma al momento mi risulta la più credibile”. Gli ambigui personaggi chiamati in causa dal Pellegrino erano C. Simioni  e G. Senzani. A Parigi avevano aperto la scuola di lingue Hyperion, una centrale internazionale del terrorismo sponsorizzata dalla CIA. Avrebbero guidato l’operazione sequestro Moro attraverso infiltrazioni nelle BR. I sospetti su chi fosse stato l’infiltrato si erano concentrati sul brigatista M. Moretti, capo indiscusso delle BR “sanguinarie” che avevano progettato ed eseguito il rapimento di Moro.

       Tramite un contatto con i socialisti di B. Craxi, A. Franceschini, un leader ante litteram delle BR, incarcerato a Torino insieme a R. Curcio (entrambi erano stati arrestati a Pinerolo l’8 settembre 1974 grazie alla delazione dell’infiltrato S. Girotto, il frate mitra), fece un tentativo per liberare Moro. Il suo teoricamente sottoposto M. Moretti non avrebbe potuto fare altro che rispettare la volontà del capo brigatista in carcere. In realtà, il Moretti si comportò in tutt’altro modo, dimostrando di assecondare il volere di altri e non quelli dei suoi superiori precedentemente arrestati e poi condannati all’ergastolo. C. Guerzoni, uno dei più stretti collaboratori di Moro, ha espresso la convinzione che M. Moretti, il prinicipale dirigente delle BR in libertà, avesse “stabilito con qualcuno una convenienza reciproca per la gestione del sequestro” tanto da aver “potuto viaggiare tranquillo per l’Italia senza che nessuno lo fermasse. Nessuno ha avuto l’interesse a trovare l’onorevole Moro; il presidente della Dc interessava più da morto che da vivo anche per chi stava dall’altra sponda (in tutti i sensi)”.

cap4-Dopo il sequestro di A. Moro, il 19 marzo l’Unità scrisse che le BR erano da considerasi ….