Subito dopo il sequestro di A. Moro, F. Cossiga, ministro degli Interni, costituì Il 16 marzo del 1978 una Commissione denominata “Gruppo Gestione Crisi” che lavorò in modo del tutto misterioso. Esso venne affiancato al comitato “ufficiale” composto da rappresentanti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti istituzionali. Secono A. Sofri la Comissione-ombra si era insediata al Ministero della Marina ed era frequentata assiduamente da L. Gelli che aveva addirittura una stanza a sua disposizione all’interno dell’edificio ministeriale. Della presenza di Gelli tra i consiglieri di Cossiga ne ha parlato anche F. Mazzola, sottosegretario alla Difesa con delega alla Marina militare e grande amico di F. Cossiga. Analoghe testimonianze le hanno fornite anche il piduista E. Cioppa (funzionario del SISDE, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) e la democristiana T. Anselmi. Quest’ultima ha detto. “Il capo della loggia P2 agiva ormai come elemento pienamente inserito al massimo livello in uno dei gangli essenziali dello Stato”. Secondo il giornalista U. Cavina, all’epoca del sequestro Moro capo ufficio stampa della DC, Gelli partecipava alle riunioni del “Gruppo Gestione Crisi” sotto il falso nome di “Ingegner Luciani”. Quando furono resi noti i nominativi degli affiliati alla loggia P2 di L. Gelli (primavera 1981) si apprese che i sei alti ufficiali che avevano dato vita al “Gruppo Gestione Crisi” erano tutti piduisti.
“Ingegner Lucio Luciani” era il nome di copertura che L. Gelli spesso usava nelle lettere di raccomandazione pubblicate tra gli atti della Commissione d’inchiesta sulla loggia P2. Come “Ingegner Luciani”, il vertice della P2 prenotava spesso una camera all’Hotel Excelsior di Roma. Nella seconda metà di gennaio 1992 è saltato fuori un documento che provava le frequentazioni di Gelli al Ministero della Marina militare: si tratta di due tesserini, datati gennaio 1979 e intestati all’“Ingegner L. Luciani”, che gli consentivano il libero accesso alla biblioteca del Ministero marittimo. Ai tempi del rapimento di A. Moro, il capo del Servizio di sicurezza antiterrorismo, E. Santillo, massimo esperto di quel settore in Italia, è stato completamente escluso dalla gestione delle indagini sul caso Moro. Forse pagava lo scotto di aver stilato, negli anni precedenti, ben tre rapporti allarmanti sulle attività criminali di L. Gelli e della loggia P2. Nell’unica occasione in cui gli hanno chiesto un consiglio sulle mosse da fare per risolvere il caso Moro, E. Santillo, significativamente e provocatoriamente, ha consigliato una retata intorno a villa Wanda, la villa del maestro venerabile L. Gelli ubicata nella campagna di Arezzo.
Durante le indagini investigative è emerso che i sequestratori di A. Moro hanno adoperato un autofurgone dotato di sofisticate attrezzature spionistiche normalmente usate dagli addetti ai servizi segreti. A tal proposito va detto che alle 9 del mattino del giorno in cui è stato rapito il presidente della DC (16 marzo), il già menzionato colonnello C. Guglielmi era in via Stresa a soli 200 metri dall’incrocio con via Fani. Avrebbe ricevuto la seguente telefonata dal suo capo, il piduista generale P. Musumeci (direttore del SISMI): “Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro”. Il militare non ha mai smentito la sua presenza sulla scena della strage, giustificandola, però, in modo del tutto singolare. Ha, infatti, dichiarato che “doveva andare a pranzo da un amico” (alle 9 del mattino!). L’amico del colonnello, un collega di nome A. D’Ambrosio, ha confermato che il Guglielmi quella mattina ha bussato alla porta di casa sua, ma ha smentito che fosse stato programmato un pranzo insieme. F. Accame, presidente dal 1976 della Comissione Difesa della Camera, ha apertamente dichiarato che “nell’agguato di via Fani il Guglielmi incarnava la presenza di GLADIO col compito di verificare che tutto andasse bene”. Probabilmente il funzionario del SISMI è stato l’individuo che ha fatto scomparire la borsa in cui A. Moro teneva le sue carte più riservate, tra cui quelle che lo vedevano ingiustamente implicato nello scandalo Lockeed. Nella fretta convulsiva del sequestro i brigatisti l’avevano lasciata sbadatamente sul posto (in via Fani, luogo dell’agguato al presidente DC).
L’azione militare di via Fani, la strada in cui è stato sequestrato A. Moro il 16 marzo 1978, è stata definita da un ufficiale dei servizi segreti italiani “un gioiello di perfezione” attuabile solo “da due categorie di persone: militari addestrati in modo sofisticato, oppure (il che è lo stesso) da civili che si erano sottoposti ad un lungo e meticoloso training in basi militari specializzate in operazioni di commando”. La presenza in via Fani di un tiratore addestrato sembra quindi essere altamente probabile. Le BR erano in contatto con l’organizzazione terroristica tedesca Rote Armee Fraktion (RAF). Poiché la dinamica del golpe di via Fani ricalca abbastanza fedelmente quella messa in atto dalla RAF per uccidere il presidente della Confindustria tedesca H. M. Schleyer (1977), è probabile che il superkiller coinvolto nel delitto Moro provenisse dal movimento eversivo RAF al cui interno gravitavano infiltrati sia del MOSSAD che della CIA. I terroristi del “gruppo di fuoco” indossavano la divisa degli Stuart dell’Alitalia. Ciò era dovuto al fatto che non tutti i componenti del commando si conoscevano. La divisa serviva appunto al reciproco riconoscimento. Un accorgimento a maggior ragione necessario per la presenza, sulla scena del sequestro, di un killer specializzato che era ignoto ai più perché proveniva dall’estero. Pare che il pistolero della RAF avesse un casco da motociclista che gli copriva il volto e che sia scappato a bordo di una moto Honda guidata da un complice. I brigatisti hanno sempre negato, mentendo, che una moto Honda facesse parte dell’armentario motorizzato di cui si erano avvalsi per sequestratre A. Moro. L’identità dei due moticlisti, descritti da più testimoni come terroristi, non è mai stata individuata. Ad uno stretto collaboratore di A. Moro, S. Freato, ed al sottosegretario democristiano N. Lettieri, l’avvocato svizzero D. Payot (si era occupato del sequestro del presidente della Confindustria tedesca H. M. Schleyer ad opera dei “combattenti” della RAF) ha dichiarato di essere disponibile ad intavolare trattative con le BR. L’avvocato, per le sue conoscenze, era sicuro di poter arrivare a contattare, senza intermediazioni, i rapitori italiani di A. Moro. Tempo dopo, a S. Freato che era andato a Ginevra per avere da lui ulteriori chiarimenti, il Payot ha detto: “Non posso occuparmi di questa vicenda, il mio Ministro della Giustizia me l’ha impedito”.
Durante il sequestro Moro (il 23 marzo 1978) è stato arrestato in Germania un cittadino statunitense in possesso di una falsa identità tedesca: P. J. Hauser, un ex pluridecorato marine che aveva eroicamente combattuto nella guerra del Vietnam. L’americano, un sovversivo della RAF forse imprestato alle BR, potrebbe essere stato coinvolto, dato le sue capacità balistiche, nel delitto Moro e nella eliminazione della scorta che doveva garantire la protezione fisica del presidente della DC. Nel 1991 è uscito un testo classico sui misteri, sulle le stragi e sul terrorismo italiano. E’ intitolato “The Puppetmasters” (I Burattinai) ed è stato scritto dal giornalista ed investigatore inglese P. Willan. Nel libro si fa riferimento ad un interessante documento dattiloscritto, recuperato dalla Polizia in una cabina telefonica di Firenze dove aveva sede il cervello operativo delle BR che il Moretti raggiungeva indisturbato settimanalmente. Il papier ha dato origine alla stesura di un rapporto di Polizia datato 16 maggio 1979. Nel resoconto il vero uomo che organizzò la strage di via Fani ed il rapimento di Moro sarebbe un italoamericano di nome David, un ex marine che aveva combattuto in Vietnam con il grado di capitano e che era poi entrato nelle Special Forces dei Green Berrets, le truppe scelte americane.
Secondo il Willan il coinvolgimento americano nel delitto Moro sarebbe stato mediato dai capi piduisti L. Gelli e M. Sindona. L’attività dello statunitense David era coordinata dal centro USIS (United States Information Service), un istituto culturale legato all’ambasciata statunitense di Roma, a sua volta collaborante con l’organizzazione golpista di destra, guidata da E. Sogno, Pace e libertà. In un intervista al giornalista A. Cazzullo, il Sogno ha ammesso che c’erano accordi tra italiani e americani per “sparare a chiunque avesse fatto accordi con i comunisti”. M. Moretti sarebbe stato infiltrato nelle BR, rispettando gli ordini emanati dalla già menzionata falsa scuola di lingue francese Hyperion, una centrale del terrorismo internazionale manovrata e strumentalizzata dalla CIA proprio attraverso l’USIS.
Una cenno a parte meritano le complicità di cui i brigatisti coinvolti nel delitto Moro godevano all’interno della società dei telefoni SIP (Società Idroelettrica Piemonte). La mattina del 16 marzo, ad esempio, pochi minuti dopo la strage ed il sequestro di Moro, un improvviso black-out interruppe le comunicazioni telefoniche in tutta la zona di via Fani e di via Stresa, impedendo le prime fondamentali comunicazioni e coprendo, di fatto, la fuga dei terroristi. Durante tutto il periodo del rapimento del presidente democristiano ci fu una scarsissima collaborazione da parte della SIP. Essa non assolse in maniera adeguata le sue funzioni (intercettazioni telefoniche) a grave discapito dell’attività investigativa. Il dottor D. Spinella, capo della DIGOS (Direzione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali) dichiarò di aver constatato un atteggiamento di assoluta non collaborazione da parte dell’Ente telefonico, inettitudine operativa che avrebbe dovuto essere perseguita dall’autorità giudiziaria. La SIP dipendeva dalla STET (Società Torinese per l’Esercizio Telefonico) di cui era amministratore delegato M. Principe, un affiliato alla loggia massonica P2 di L. Gelli.
Dopo la morte del leader democristiano (9 maggio 1978), M. Pecorelli, direttore della rivista O. P., ha pubblicato una sibillina cronaca del ritrovamento del cadavere di A. Moro (Roma, via Caetani, Ghetto ebraico). Il giornalista si è soffermato sul muro al quale era addossata la Renault rossa contenete il corpo del presidente DC appena ammazzato: “Dietro (il muro) ci sono i ruderi del teatro Balbo, il terzo anfiteatro di Roma. Ho letto in un libro che a quel tempo gli schiavi ed i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra di loro. Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte venisse scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora ed il sangue di oggi”. Quell’accenno a schiavi e prigionieri che combattono nell’arena, piazzato nel bel mezzo di un articolo che parlava d’altro, era risultato allora incomprensibile. Diventò trasparente dopo la scoperta di GLADIO (uno dei sostenitori era proprio l’onorevole A. Moro). Chi altri, se non i gladiatori, combattono nell’arena scannandosi a vicenda? Il Pecorelli, depositario di segreti incoffessabili, ha fatto una brutta fine. Per la sua morte è stato ritenuto responsabile l’onorevole G. Andreotti. Condannato in primo grado, sulla scorta delle rivelazioni fatte dal boss mafioso pentito T. Buscetta, è stato successivamente assolto in appello. Più persone hanno detto che chi doveva temere di più dalle rivelazioni di Moro fatte dal carcere di via Montalcini 8 era proprio G. Andreotti. Le confessioni morotee potevano svelare le malefatte andreottiane come, ad esempio, lo scandalo per gli assegni dell’Italcasse, uno scandalo del malcostume politico italiano che ha riempito per mesi le pagine dei quotidiani.
Alcuni indizi fanno ritenere che l’ultima prigione morotea fosse ubicata vicino al luogo dove A. Moro è stato rinvenuto cadavere: via Caetani sita all’interno del Ghetto ebraico di Roma. In questa via ci sono i palazzi Caetani e Antici Mattei. Non solo nel palazzo Mattei abitava un inquilino che aveva rapporti con il SISDE, ma c’era anche un Centro Studi Americani (una copertura dei servizi segreti USA) frequentato da G Senzani, uno dei fondatori d’Hyperion, la scuola di lingue parigina da cui provenivano alcuni terroristi tra i quali anche M. Moretti, la mente organizzativa del sequestro Moro. Come abbiamo visto il Senzani era un terrorista invischiato indirettamente fino al collo nella strage di via Fani e nel rapimento di A. Moro. I giornalisti G. Fasanella e G. Rocca sostengono che il presidente DC, ai primi di maggio, era ad un passo dalla liberazione. Sarebbe stato salvato da un’abile mediazione tra Viminale, BR, USA, KGB e Vaticano. Condotto nel palazzo del Ghetto ebraico (palazzo Mattei), grazie alla rete dei contatti internazionali intessuta dal direttore d’orchestra I. Markevitch, stava per essere portato in salvo in Vaticano su di una macchina con targa diplomatica. Ma all’ultimo momento all’interno delle BR qualcuno, imbeccato da imprecisati manovrieri internazionali, si rimangiò la parola data e A. Moro venne fucilato.
Un fatto è ormai accertato: ancora oggi, a tanti anni di distanza dalla strage di via Fani, del delitto Moro sono più gli aspetti ingnoti che quelli accertati. E’ una vicenda molto simile a quella dell’assassinio del presidente americano J. F. Kennedy: retroterra politico, mandanti ignoti, esecutori individuati solo in parte, un seguito giudiziario complesso e largamente inconcludente. In sintesi una verità rimasta sepolta sotto un cumulo di scartoffie. Per questo il caso Moro resta imperdonabilmente aperto e certi colpevoli impuniti circolano indisturbati a piede libero come se niente fosse mai accaduto.