L’OPINIONE: Se fossi una donna l’8 marzo sarebbe un giorno triste, uno di quei giorni dove è meglio starmi alla larga e possibilmente, per i poveri malcapitati, non arrischiarsi in qualche augurio o mazzetto di mimosa da regalare.
Tutte le giornate a tema sono tristi di per sè, perché vuol dire che il nostro sguardo sul mondo è decisamente piccolo e la nostra memoria piuttosto labile, ed allora una cura ricostituente per ricordarsi della vita, dei bambini, dei malati, di alcune malattie, delle guerre, del bisogno della pace, e via come un triste rosario di ciò che troppo spesso dimentichiamo essere parte viva di ciò che sta intono a noi e che non possiamo far finta che non esista.
Ma ritorniamo a questa malaugurata data, sporcata, tradita, derisa da una serie di iniziative che fanno rivoltare allo stomaco spero delle donne e di chi per un attimo si immagina di esserlo.
Pizza per sole donne; serata con strip maschile; una serata con i “Centocelle Nigthmare” per le più commerciali; cioccolatini e mazzetti di mimosa per le più dolci; qualche scherzo scemo, possibilmente fallico per le più trasgressive; qualche dibattito culturale, spesso solo di sinistra, spesso di gente arrabbiata, e con la donna-politica di turno che rivendica pari opportunità, parola importante a parte che non venga svenduta con numeri e percentuali o quote rosa da strappare al potere maschilista sempre più in declino.
Forse già quel termine “festa” è delirante in una giornata che di festa non ha nulla, ma solo una triste situazione della donna che grida la sua vergogna ad alta voce, ma visti i rumori di fondo spesso non viene ascoltata.
L’origine è conosciuta: C’erano una volta delle operaie tutte lavoro, fede socialista e sindacato; e c’era un padrone cattivo. Un giorno, le lavoratrici si misero in sciopero e si asserragliarono nella fabbrica. Qualcuno (il padrone stesso, a quanto si dice) appiccò il fuoco e 129 donne trovarono atroce morte. Era l’8 marzo 1908, a New York. Due anni dopo, la leggendaria femminista tedesca Clara Zetkin propose, al Congresso socialista di Copenaghen, che l’8 marzo, in ricordo di quelle martiri sociali, fosse proclamato "giornata internazionale della donna".
L’incipit fiabesco è voluto, visto che ultimamente qualche studioso, leggi Messori, ha dichiarato la falsità storica di questo avvenimento, affermazione che non toglie nulla, per quel che mi riguarda, del messaggio che vuole lanciare.
L’8 marzo dovrebbe essere un giorno dove i canali delle comunicazione alle menti e in ciò che suscita nell’uomo vergogna e frustrazione, non smettono di elencare luoghi, persone, situazioni, notizie, realtà dove la donna è involontaria protagonista del peggio che l’uomo riesce a concepire.
Luoghi come Afganistan, luogo dove noi siamo tutor della pace, e ci troviamo i matrimoni forzati delle minorenni, con le loro implicazioni di abusi fisici e sessuali; l’esecuzione pubblica di una donna per ordine dei consigli locali; c’è l’autoimmolazione delle ragazze e i suicidi spinti dalla disperazione per vedere impuniti gli abusi, sempre e comunque.
Andiamo in Cina dove possiamo trovare testi di oggi dove vi si trova un promemoria per la donna “dabbene”: Quando cammini, non girare la testa; quando parli, non aprire la bocca; quando siedi, non muovere le ginocchia; quando sei in piedi, non agitare le vesti; quando sei felice, non ridere forte; quando sei arrabbiata, non alzare la voce.
Troppo difficile essere donne in Cina: Rapite, sfruttate fino alla morte, discriminate dal potere, lavori massacranti, orari improponibili e un salario che a volte può toccare anche i 40 euro mensili
In Bangladesh, il 71,8% delle ragazzine tra i 15 e 19 anni sono gia sposate; la mortalità da parto in questa fascia d’età è doppia rispetto alla media.
Ad Haiti, su 1000 bambini tra 1 2 e i 5 anni, muoiono 61 femmine e 48 maschi; in Costa Rica, 8 femmine e 5 maschi.
Su un campione di 8.000 aborti effettuati a Bombay, in India, dopo un’amniocentesi, 7.999 riguardavano feti di sesso femminile;
Nella città di Recife, capitale dello stato di Pernambuco, nel nordest del Paese, dal 2005 sono state uccise 1.589 donne. 41 dal gennaio di quest’anno. Tutte vittime di violenza domestica: i loro carnefici sono mariti violenti, ex consorti che non accettano la fine del matrimonio, compagni traditi. Le donne uccise per lo più sono povere, di colore e hanno fra i 15 e i 24 anni. E sono solo alcune delle tante nazioni citabili.
Ma in questo giorno dovrebbero risuonare anche dei nomi, emblema di nomi che non verranno mai pronunciati su nessun giornale, anche se nemmeno questi ci vanno molto.
Penso a nomi di donna che rendono questa giornata importante, significativa e forse indispensabile.
Wangari Muta Maathai (Nyeri, 1 aprile 1940) è una politica keniota, vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2004., dagli alberi ai diritti delle donne. Afferma: Se noi vogliamo la salvaguardia del creato dobbiamo proteggere gli esseri umani, che fanno parte della biodiversità”
Rigoberta Menchú Tum (Chimel, 9 gennaio 1959) è una pacifista guatemalteca che ha ricevuto nel 1992 il Premio Nobel per la Pace, datole "in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene".
Ingrid Betancourt Pulecio (Bogotá, 25 dicembre 1961) è una donna politica colombiana.
Figlia di un ex ministro dell’educazione e di una ex senatrice, ha vissuto all’estero la maggior parte della propria vita, soprattutto in Francia, dove ha studiato presso l’Institut d’études politiques di Parigi.
Militante nella difesa dei diritti umani, ha fondato il partito di centro-sinistra "Partido Verde Oxígeno". È stata rapita il 23 febbraio 2002 dalla guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Da allora di lei si è persa ogni traccia. Il 17 maggio 2007 è stata resa nota la notizia, riportata da un poliziotto sfuggito alla prigionia, che la Betancourt sarebbe ancora viva. Il 30 novembre 2007 il governo colombiano ha dichiarato che è stato trovato un video recente con la Betancourt ancora viva. Il resto è cronaca di questi giorni
Un giorno, quello dell’8 marzo, dove le cifre, le inchieste devono essere messe al posto di quei mega cartelloni che stanno inquinando le nostre città promettendo un Italia nuova, una realtà nuova… forse.
Sorprendente il risultato di una ricerca sulla situazione delle donne rispetto a quella maschile, svolta dal World Economic Forum, un’organizzazione internazionale indipendente.
Il report si riferisce all’anno in corso e si basa su quattro fattori di valutazione: partecipazione e opportunità economiche; accesso all’educazione; influenza e potere politico; salute e aspettative di vita.
Il report del "gap" tra i sessi per il 2007, si legge nell’introduzione, riguarda tutti i Paesi dell’Unione Europea, 20 dell’America Latina e Caraibi, più di 20 dell’Africa e 10 del mondo Arabo. Tutti insieme questi 115 Paesi coprono circa il 90% della popolazione mondiale.
Nella tabella in cui sono stati raccolti i dati finali, l’Italia si piazza solo 77esima, come fanalino di coda dell’Unione Europea, escludendo Cipro.
Gli Stati Uniti si piazzano al 22esimo posto, mentre chiudono la classifica il Chad, l’Arabia Saudita e lo Yemen.
Se il giorno è un dire grazie per ciò che le mamme fanno per quella loro inimitabile identità, trovando risorse inimmaginabili… allora facciamo festa.
Se il giorno è un dire grazie per chi, nella propria casa, esegue un lavoro che nessuna paga, nessun sindacato, nessun contratto riuscirà mai a mettere su carta, perché fatto con la vita… allora facciamo festa.
Se il giorno è un gridare con forza contro certe sordità che certi modi di usare, sfruttare, utilizzare la donna e il suo universo anche per chi non ha voce…. Allora facciamo festa
Se il giorno è un rimettere sul piatto della storia e della politica quelle “pari opportunità” così ben definite a parole ma sempre disattese nei fatti… allora facciamo festa.