Luigi Canali (capitano “Neri”): la sfinge di Giulino di Mezzegra

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Ha scritto il giornalista e storico Roberto Festorazzi (I terribili segreti del capitano “Neri”. www.politicaonline.net. Reperibile per via telematica): “La verità sulla morte di Benito Mussolini, avvenuta a Giulino di Mezzegra (lago di Como) il 28 aprile del 1945, non è ancora venuta alla luce.

 

A 58 anni dai fatti, emerge che il vero protagonista dell’esecuzione del Duce sarebbe stato il capitano “Neri”, alias Luigi Canali, comunista e capo carismatico della Resistenza lombarda, ucciso dai suoi stessi compagni il 7 maggio del 1945. Prima che uscisse dalla sua casa di Como per mai più farvi ritorno, la madre Maddalena Zannoni cercò inutilmente di trattenerlo, perché sentiva che stava per incontrarsi con i suoi assassini. Lo supplicò: <Non uscire, Luigi! Non andare!>. E poi la raccomandazione, decisiva, svelata per la prima volta dalla sorella tuttora vivente del Canali, Alice, 89 anni: <Non dirlo, Luigi, non dirlo!>. Che cosa non doveva dire di così grave e pericoloso, il capitano “Neri”? Che era stato lui ad abbattere il Duce, come ammette oggi con qualche pudore Alice Canali, di due anni più giovane del fratello Luigi: <La sua partecipazione al plotone di Giulino di Mezzegra, dice, è stata una delle cause della sua morte violenta, ad opera di sicari del Partito comunista. Mio fratello veniva tacciato di essere un “traditore”, perché avrebbe collaborato con i fascisti, durante la sua detenzione nelle carceri comasche, nel gennaio del 1945. Un’accusa assurda, totalmente infondata, alla quale molti suoi stessi compagni non credevano, tanto è vero che nei giorni dell’insurrezione venne accolto trionfalmente nelle formazioni partigiane. Mia madre cercò inutilmente di ottenere dal PCI la riabilitazione di mio fratello: ebbe colloqui con Togliatti, con Rita Montagnana e con altri dirigenti del partito, ma non venne mai esaudita>”.
Finora il “Neri” è stato un protagonista accuratamente rimosso dalla scena del “delitto”. Si è parlato della presenza, davanti al famoso muro di cinta di Villa Belmonte dove la sentenza di morte fu eseguita, del colonnello “Valerio” (Walter Audisio), di Aldo Lampredi (“Guido”), di Michele Moretti (il partigiano “Pietro”). Ma le impronte, le tracce del capitano “Neri” non sono perdurate, per volontà di quello stesso PCI che aveva deciso di sbarazzarsi del suo scomodo dirigente. Così il Canali è scomparso. Sparito nel nulla. Perfino il suo corpo non è mai più stato trovato. Il capitano “Neri” pagò con la vita l’aspra resa dei conti che ebbe luogo nel suo partito: fautore della linea legalitaria, aveva cercato, inutilmente, tanto di opporsi alla fucilazione senza processo di Mussolini, quanto di contrastare l’incameramento dell’oro di Dongo e dei documenti di Stato che il capo del fascismo aveva portato con sé sulle rive del lago di Como. Ma non c’è dubbio che il grande regista delle operazioni di Dongo fosse stato proprio Luigi Canali. Fu lui a scegliere, nella notte tra il 27 e il 28 aprile, l’ultimo rifugio del Duce e della Petacci, il casolare dei contadini De Maria, nella frazione Bonzanigo di Mezzegra. Un luogo isolato che rese di fatto indispensabile un suo ulteriore sopralluogo, poche ore più tardi, il pomeriggio del giorno 28. Infatti, per la natura del nascondiglio, nessun altro sarebbe stato in grado di condurre da Mussolini la pattuglia dei giustizieri”.
Questo particolare venne colto da un bravo giornalista, Ferruccio Lanfranchi, che fin dal maggio 1945 scrisse sul Corriere d’Informazione il primo documentato reportage sui fatti di Dongo. Un’inchiesta che è stata sorprendentemente trascurata in tutte le successive ricostruzioni storiche. Eppure il Lanfranchi giunse a un passo dalla verità: riferì che Canali era stato testimone degli ultimi istanti di vita del dittatore, anche se non osò affermare che aveva esploso lui i colpi fatali. Con prosa scarna, raccontò sul suo giornale, il 27 maggio del 1945, che “Neri” era giunto al casolare di Mezzegra alle 16 del 28 aprile, accompagnato da Audisio (“Valerio”) e da un patriota armato di mitra (con ogni probabilità si tratta di Michele Moretti). Ciò che colpisce di questa ricostruzione è il mancato accenno a Lampredi, che invece compare in altre successive versioni che lo stesso giornalista ebbe modo di puntualizzare anche nell’aula della Corte d’Assise di Padova, durante il processo che su ori e delitti venne celebrato nel 1957. “Valerio” disse a Mussolini: <Siamo venuti per liberarvi>. Il Duce, sarcastico, rispose: <Troppo gentili>”.

Sapeva che era giunta la sua ora. Il corteo formato dai partigiani, dal dittatore e dalla Petacci si avviò verso l’automobile che li avrebbe trasportati soltanto poche centinaia di metri più a valle, per una breve corsa che si sarebbe interrotta in prossimità del cancello di Villa Belmonte. Il capitano “Neri” era in divisa color cachi armato di “parabellum”, mentre “Valerio” impugnava una pistola. Il luogo prescelto per l’esecuzione era sufficientemente appartato e lontano da occhi indiscreti. Quando, però, Mussolini e la Petacci vennero fatti scendere dalla vettura, qualcosa andò storto. Ci fu un momento di concitazione: il rito espiatorio si svolse sotto il segno di un certa improvvisazione. Qualche arma si inceppò e il tiratore scelto che avrebbe dovuto esplodere i colpi fatali fece cilecca, o non fu in grado di terminare la fucilazione. Il dramma si prolungò nel tempo, troppo. Prima che Mussolini e la Petacci che si era avvinghiata al suo amante potessero finire massacrati coi calci dei mitra, intervenne il capitano “Neri”, che pure era contrario a quell’esecuzione sommaria che giudicava arbitraria. D’istinto, forse spinto dalla pietà, sparò sul Duce e “finì” anche la Petacci. Tutto ciò trova conferma nelle confidenze che Canali fece nelle giornate che precedettero la sua eliminazione e che provano la sua partecipazione all’evento. “Neri” rivelò infatti che il Duce era “morto male” e che, messo al muro, aveva implorato i suoi giustizieri con queste precise parole: <Fate presto! Fate presto!>”.

Tra la fine di aprile e i primi di maggio, Canali ebbe la sventura di entrare nuovamente in rotta di collisione con il suo partito per la questione dell’oro e dei documenti, che secondo la sua coscienza dovevano essere consegnati allo Stato e non acquisiti come preda bellica. Il 7 maggio sparì da Como e, dopo di lui, una lunga scia di sangue contrassegnò l’epoca dei “veleni di Dongo”: dieci delitti vennero commessi per occultare l’omicidio del Canali. La prima ad essere eliminata, il 23 giugno di quello stesso 1945, fu Giuseppina Tuissi (“Gianna”), la giovane partigiana milanese che aveva condiviso con il “Neri” la prigione e le torture fasciste. Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno, la Tuissi e la madre del Canali, Maddalena, erano state convocate in via Solferino, alla redazione del quotidiano milanese che allora usciva con la testata Corriere d’Informazione, per essere interrogate dal Lanfranchi. Anche su questo punto siamo in grado di aggiungere importanti novità, grazie ad alcuni appunti autografi inediti della Zannoni che ci sono stati consegnati dalla figlia Alice. Lanfranchi desiderava ottenere conferme alle sue ricostruzioni giornalistiche, dopo che l’Unità aveva pubblicato un corsivo dal sapore intimidatorio con il titolo “Imbrogli”. Il quotidiano comunista, in sostanza, faceva giungere un messaggio inequivocabile al direttore del Corriere : <Invitiamo l’articolista, si legge nel testo apparso su l’Unità, a cessare i suoi racconti immaginari, a non attribuire a questo o a quello imprese inventate in redazione, invitiamo il giornale se possibile a rispettare il lettore>”.

Le due donne confermarono a Lanfranchi la bontà delle sue ricostruzioni, ma al cronista venne comunque tappata la bocca. Maddalena Zannoni ben conosceva la verità. Sapeva che suo figlio aveva partecipato, da protagonista, alla fucilazione del Duce e che avrebbe raccontato, a qualunque costo, la dinamica di quell’esecuzione sulla quale il PCI aveva invece deciso di calare un velo di silenzio piuttosto ambiguo, attorno al quale si è poi elevata una cortina fumogena di dubbi, di sospetti, di illazioni. E invece la realtà è probabilmente molto semplice: l’attore principale dell’evento torna a riprendersi, da morto, il posto che gli spetta. E le parole di sfogo lasciate da sua madre, oltre all’invito accorato a non parlare, suonano profetiche: <Chi ha fatto pubblicare l’articolo su l’Unità intitolato “Imbrogli”? Chiunque sia stato questo individuo non ha recato un buon servizio al partito>”.

Va comunque precisato che già Alessandro Zanella (L’ora di Dongo. Rusconi, 1993) aveva attribuito al capitano Neri il ruolo di giustiziere di Mussolini, un ruolo che anche il partigiano dell’Oltrepò pavese Orfeo Landini gli aveva appioppato, lasciando, peraltro, maldefinita la questione (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C. D. L. Edizioni, 1998). Questa versione dei fatti sarebbe una “revisione” di quella “ufficialmente “ tramandata da Walter Audisio, il colonnello Valerio (M. Di Belmonte. L’assassinio di Benito Mussolini. libro telematico, 2008. fncrsi.altervista.org). Come “l’originale” anche la ricostruzione del Festorazzi appare fortemente improbabile per una serie di motivi che il Di Belmonte elenca con precisione nel suo libro (op. cit.). Tuttavia non ho scritto quest’articolo per confutare o meno la “storica” bufala del Partito Comunista, ma per delineare meglio la figura del Canali, autentica Sfinge comparsa sul proscenio del teatro che ha messo in scena gli infausti avvenimenti di Dongo. Sempre per sgombrare il campo da illazioni che non saprei confermare o contraddire, accenno solo ad un possibile ruolo che il “Neri” avrebbe svolto, obbedendo ad ordini che provenivano dai Servizi Segreti britannici alle dirette dipendenze di Winston Churchill ossessionato dal pericolo che poteva provenire dalle carte possedute dal Duce durante il suo estremo tentativo di ritirarsi in armi in Valtellina.(L. Garibaldi. La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? Ares,2002). La qualifica di spia degli inglesi è un’etichetta che il Canali si porta addosso e che, forse, nessuno sarà mai in grado di scollargli di dosso. Ma, come ho detto, non è questo il punto che mi preme di sottolineare.

Nel 1945 il clima imposto dal PCI era insopportabili per i comunisti, tra cui il Canali, che si dichiaravano sostenitori di una strateguia politica non strettamente allineata con i rigidi dettami dettati da Mosca. Un clima carico di diffidenza, di aggressività e di tensioni, ma privo di una componente creativa ed apertamente dialogante che avrebbe nobilitato un costruttivo contraddittorio refrattario all’ideologie preconcette ed alle fumisterie politiche. Ciò perche dietro il tendenzioso conservatorismo accentratore e demagogico e la miope pertinacia degli elementi autoritari ed oltranzisti del PCI e fuori dalle camarille dell’ex seminarista Palmiro Togliatti (con la rubanska grigio-azzurra dei contadini ucraini e sotto la vernice intellettuale del filologo umanista si spendeva in una consumata ruserie filorussa per trovare sempre nuovi apostoli e pedissequi reggicoda disposti ad applaudirlo con stucchevole piaggeria e con servilismo acquiescente) vi erano realtà umane, intellettuali, culturali ed etiche diverse, forse diversissime, non di rado addirittura contrapposte. Costoro non erano disposti a servirsi del socialismo di Karl Marx per portare i cosacchi dappertutto con il mitra al posto dello knut. Alcuni, privati dell’ossigeno del dibattito e deligittimati d’autorità, erano accolti come le bestie in Chiesa a causa di quell’esecrabile distorsione del concetto di fedeltà che il comunismo autocratico, esclusivista ed elitario del leader massimo, ammaestrato ed addomesticato nella repubblica dei Soviet (la “Patria delle Patrie”), imponeva, escludendo qualsiasi forma di libero ed autonomo esame degli ordini superiori per sancire l’obbligo tassativo dell’obbedienza cieca e del rigido allineamento su inflessibili posizioni ierocratiche prestabilite dal summit comunista. Nello storicismo togliattiano (come del resto in tutto il poststalinismo delle nomenklature dell’Est) il peggiore dei torti era quello di avere ragione in anticipo sui tempi. Gli errori del proprio partito si potevano riconoscere solo quando li aveva accertati il partito stesso. Chi li aveva denunciati prima rimaneva confinato all’inferno. Nikita Chruscev aveva documentato i crimini di Stalin, ma gli anarchici ed i trotzkisti che lo avevano fatto anzi tempo continuavano ad essere etichettati come “nemici del popolo”.

I pochi dissidenti dal carattere indipendente, sostenuti da una passione ideale e da una sicura fede nelle compensazioni vitali ed il cui ragionare pacato spaziava in un larghissimo raggio di vedute, non erano affatti disposti ad avallare, visto il loro esaustivo riluttare ad indebiti coinvolgimenti dottrinari, certei ancestrali antagonismi e certe radicali attitudini che pretendevano di sollevare come toccasana ad ogni istante epifanico il feticcio della devozione assoluta e dell’intransigenza stakanovista in nome del collettivismo massificatore di stampo bolscevico, del materialismo marxista antioccidentale e dell’espansionismo imperialista concepito dalla sordida impudenza di Stalin che predicava ai quattro venti la dittatura del proletariato, la cosiddetta “democrazia progressiva”, originariamente proposta da Lenin dopo la Rivoluzione d’Ottobre: una congerie di passatismo, il risultato dell’incesto tra un orientalismo atavico ed un culturalismo occidentale, utile per ingannare le masse, ma difficile da coonestare in Italia per la sua aporia politica e per il fatto che nel nostro Paese vi era un diverso tessuto sociale, economico e culturale. L’armamentario ideologico illuminato di questi assennati spiriti eletti dal duttile temperamento, dal rigore razionalista e cartesiano, dal fervore libertario e dalla fascinazione per l’azione costruttiva controcorrente appariva come l’spressione personalizzata della loro fede in un avvenire da conquistare e del loro talento estroso e non condizionabile. Dato che non si può vincere con la sola disciplina, essi non erano disposti ad assumere gratuitamente una posizione ancillare e subordinata, avevano una serie di proposte progressiste da portare avanti ed erano ansiosi di devastare il chiuso abbecedario delle idee che proveniva dalle innevate e gelide steppe russe. Nel contempo, volevano mantenere la propria libertà di pensiero, far prevalere la forza del diritto sulla faziosità, rifiutare l’imposizione che li obbligava ad essere strumenti del PCI e, soprattutto, desideravano combattere con accanimento contro avversari vecchi e nuovi per farsi portavoce, ispiratori e guida antesignana di un movimento che affrontava il toro comunista tirandogli la coda per eccitare la sua foga e pungolandolo ai fianchi per raffozzarne l’impeto e lo spirito ribelle.

Una smania appassionata di rivincita, prima sotterranea poi conclamata, che aveva per loro un significato catartico. Ciò li induceva a lottare con ferma determinazione per far sì che il vecchio andazzo massimalista repressivo ed omologante non tornasse a prevalere, per far tacere la chioccia capmanella integralista, per contestare con l’innovazione lo scolasticismo marxista imperante, per contrastare la ridondante tradizione dell’accentramento statale comunista e per abolire una supremazia ideologica totalitaria e nichilista che fin dalla presa del Palazzo d’Inverno vessava lo spirito e reprimeva, con le sue derive barbariche, qualsiasi forma di iniziativa autonoma e privata singolarmente proposta. Codeste persone erano animate da un vero spirito rivoluzionario innovativo e salutare, esprimevano una curiosità insolita, aspirando a connotarsi in un modo nuovo, e coltivavano alcune speranze palingenetiche che d’istinto precorrevano i tempi. Sicuri del fatto loro mostravano un piglio ribellistico ed una disinvoltura dissacrante rispetto ad ogni momento liturgico e cerimoniale della turibolare cosmogonia politica sovietica, vincolata da capziosi paralogismi strutturali e da precise e rigorose norme prossemiche da cui era pericoloso dissociarsi. Ritenevano, infatti, che i criteri revisionistici dello stalinismo, meri instrumentum regni dell’imperialismo bolscevico, avrebbero abolito la allettante prospettiva di realizzare il socialismo in poche decenni o in poche generazioni. Partendo coerentemente dai Lumi e dal disincanto, il loro era un uppercut ideologico (sferrato contro il ghignante mostro russo nascosto dietro le ipocrite fattezze della borghesia angloamericana) che nascondeva, come direbbe Karl Marx, mille “cavilli metafisici e arguzie teologiche”. I ragionamenti fatti da loro, incentrati sul cosmopolitismo illuministico e sull’internazionalismo non ideologico, avevano una chiarezza lapalissiana e non erano di certo reazionari o infarciti da pedissequi paradossi.

In sintesi, essi volevano fare a meno degli indegni servigi del capestro e della ghigliottina, come pure dell’indigesto latte succhiato dalle gonfie mammelle dell’Internazionale Comunista, una istituzione perduta nella nebbia del mortificante conformismo che tutto confondeva e spegneva sotto la grigia veste dell’ortodossia formale e del freddo dogmatismo settario. Scansando il servile ossequio alla realpolitikbudionka e stella rossa in testa non andavano tanto per il sottile. moscovita, non scambiavano inavvertitamente l’autonomia, che è continua innovazione, con la conservazione che è ritirata, pedante, scontata, demagogica e scimmiesca ripetizione. Tra queste persone si agitava il Canali. L’ha fatto troppo energicamente, non è stato abbastanza prudente. Visti i tempi non era quello il momento opportuno per scoperchiare una pentola in ebollizione al cui interno lessava la carne del Duce condita con tanto di spezie pregiate: oro, gioielli ed incartamenti. I chuochi con la