Se indubbiamente il Re ha effettuato un vero e proprio colpo di Stato (peraltro indilazionabile), nulla giustificava l’accusa avanzata dai fascisti repubblicani: quella della congiura ordita dal Re, da Grandi e dagli altri gerarchi che si erano espressi per il “si”. Il Re cercava senza dubbio da tempo un modo per sbarazzarsi di Mussolini. Ripetuti erano stati i contatti di Grandi col Sovrano per cercare di mettere in atto questa soluzione governativa. Il voto del Gran Consiglio era una vera e propria “sfiducia parlamentare”. Il Re aveva quindi il destro (o il coraggio?) per licenziare il Duce. Ma di congiura non si può parlare. Basti pensare ad un fatto: il capo dei complottatori, Grandi, si era preoccupato di far conoscere in anticipo a Mussolini, oltre che al suo segretario generale, Carlo Scorza, il contenuto dell’ordine del giorno che si apprestava a presentare. In pratica aveva svelato anticipatamente l’arma con cui voleva realizzare il suo piano e cioè la sua “congiura”. Poichè era insostenibile, gli stessi fascisti hanno lasciato ben presto cadere l’accusa esplicita di complotto. Restava il fatto che i diciannove votanti per il “sì” avevano decretato la fine politica di Mussolini e quella del regime fascista. Per questo i fascisti repubblicani irriducibili li avevano bollati come “traditori”. Eccone i nomi: De Bono Emilio, Ciano di Cortellazzo Galeazzo, Cianetti Tullio, Pareschi Carlo, Marinelli Giovanni, Gottardi Luciano, Bottai Giuseppe, Bastianini Giuseppe, Rossoni Edmondo, De Stefani Alberto, Albini Umberto, Bignardi Annio, Balella Giovanni, Federzoni Luigi, Acerbo Giacomo, Grandi Dino, Alfieri Dino, De Vecchi Cesare Maria, De Marsico Alfredo.
Molti di loro erano del tutto sconosciuti al grande pubblico. Altri erano, invece, delle vere e proprie icone fasciste. Se il primo indiziato poteva essere Dino Grandi, la figura di maggior spicco era senza dubbio Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, enfant prodige del regime, da molti incolpato di aver costruito le sue fortune politiche sposando Edda, la figlia prediletta del Duce. C’erano anche due quadrunviri della Marcia su Roma, De Bono e De Vecchi, e altri personaggi ben identificabili: Dino Alfieri (nel periodo in cui aveva ricoperto la delicata carica di Ambasciatore a Berlino si era prodigato per svincolare l’Italia dall’alleanza con la Germania); Alfredo De Marsico, Ministro di Grazia e Giustizia, uno dei più illustri giuristi italiani; Giuseppe Bottai, già ministro dell’Educazione Nazionale, il fine intellettuale che aveva dato lustro ideologico al regime fascista.
Il Congresso di Verona, durante il quale era stata auspicata la vendetta contro i “traditori del 25 luglio”, si era concluso il 14 novembre 1943. Quattro giorni dopo la Gazzetta Ufficiale pubblicava il decreto, deliberato nella seduta di governo del 13 ottobre 1943, che istituiva i Tribunali Straordinari Provinciali e il Tribunale Straordinario Speciale. Compito dei Tribunali Provinciali era quello di giudicare (art.1 sub a, b e c) “I fascisti che hanno tradito il giuramento di fedeltà all’Idea”; “Coloro che dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943 XXI E.F. hanno comunque con parole e con scritti, o altrimenti, denigrato il Fascismo e le sue istituzioni”; “Coloro che hanno compiuto comunque violenze contro le persone e le cose dei fascisti o appartenenti alle organizzazioni del Fascismo o contro le cose e i simboli di pertinenza dello stesso”. Il Tribunale Speciale aveva, invece, come unico suo compito precipuo (art. 4) quello di “Giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del giorno 24 luglio 1943 tradirono l’Idea rivoluzionaria alla quale si erano votati fino al sacrificio del sangue, e col voto del Gran Consiglio offrirono al Re il pretesto per il colpo di Stato”.
I membri dei Tribunali Provinciali e i pubblici accusatori dovevano essere selezionati (art. 2) tra persone che erano dei “Fascisti di provata fede e di spiccata moralità”. Quelli del Tribunale Speciale (art. 5), in numero di nove più il pubblico accusatore, tra “Quelli che dimostrarono assoluta fedeltà al Duce e all’Idea durante il sorgere e lo sviluppo della rivoluzione, e particolarmente tra coloro che dal 24 luglio 1943 XXI E.F. in poi ebbero a soffrire per la loro incondizionata dedizione alla causa”. Il “Tradimento dell’Idea” era punito con la morte; gli altri reati con la reclusione da 5 a 30 anni. I membri dei Tribunali erano nominati dal Consiglio dei Ministri su proposta del segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini. I firmatari dell’ordine del giorno Grandi erano diciannove. Solo sei di questi sono stati arrestati. I più accorti avevano ben capito che il regime era finito e che si annunciavano giorni duri. Più nessuno si sarebbe comportato da amico, né gli ex-camerati, né gli antifascisti (tanto più quelli di fresca nomina, primo fra tutti il nuovo Capo del Governo, generale Pietro Badoglio). I più sprovveduti si sono comportati come al solito, conducendo la loro vita come se niente fosse accaduto. Grandi, Alfieri, De Marsico si sono, invece, nascosti, chi all’estero e chi nella stessa Roma. Bottai, dopo essere stato arrestato su ordine di Badoglio, una volta scarcerato, poche settimane dopo, è scomparso arruolandosi nella Legione Straniera. E non citiamo che le figure più rappresentative tra quelle che si sono occultati. Ma sei uomini, per ragioni diverse, non avevano capito a fondo la situazione e sono divenuti le vittime da sacrificare sull’altare della Patria repubblicana. La Guardia Nazionale Repubblicana e le altre numerose polizie sorte durante la RSI non brillavano certo per solerzia e per fervore littorio. Ciònonostante non c’è stato bisogno di alcuna indagine per scovare i sei ingenui “traditori”.
Luciano Gottardi, Presidente della Confederazione dei Lavoratori dell’Industria, continua a recarsi in ufficio fino alla metà di Agosto, quando viene destituito. Dopo la costituzione del Partito Fascista Repubblicano scrive a Pavolini per richiedere l’iscrizione alla tesserata conglobazione. Pavolini, stupito che Gottardi non sia fuggito e risieda ancora a Roma nella propria abitazione, gli manda a casa non la tessera, ma i Militi che lo arrestano.
Carlo Pareschi, Ministro dell’Agricoltura e Foreste, sa che i fascisti vogliono vendicarsi, ma non si preoccupa minimamente di fuggire, convinto com’è di essere estraneo al gioco della politica. Lui si considera un tecnico. Ha firmato distrattamente lordine del giorno Grandi senza sapere esattamente quello che faceva. Era venuto al Gran Consiglio per riferire sulla situazione alimentare del Paese. Alla fine della riunione aveva definito l’ordine del giorno Grandi in questo modo: “Sono solo parole, non cambierà nulla”.
Tullio Cianetti, Sottosegretario alle Corporazioni, ha invece una carta vincente: ha votato a favore dell’ordine del giorno Grandi, ma poche ore dopo ha ritrattato il suo voto con una lettera a Mussolini in cui si dichiarava pentito di quello che inavvertitamente aveva fatto. Si lascia arrestare nella propria abitazione senza opporre alcuna resistenza.
Giovanni Marinelli, Segretario Amministrativo del Partito, è invece convinto di essere un intoccabile. E’ legato al Duce, a cui da del “tu”, fin dalle origini del fascio primigenio. E’ stato lui ad trovare le finanze per la Marcia su Roma. E’stata una sua creatura la famigerata “Ceca”, non una polizia politica, ma bensì una risma di picchiatori che ha avuto la sua tragica notorietà con il sequestro e l’uccisione dell’Onorevole socialista Giacomo Matteotti. Per questo delitto il Marinelli era stato inquisito, arrestato e poi scarcerato per l’intervento dello stesso Mussolini. Il Duce aveva tutto l’interesse a proteggere l’uomo di cui si serviva per sbarazzarsi dei suoi avversari politici. Quando vede arrivare a casa i Militi fascisti che lo vogliono arrestare, il Marinelli capisce che i tempi sono cambiati. Neanche i reconditi segreti e le complici collusioni col Duce potranno salvarlo. La scena è penosa: Marinelli si mette a piangere, costringendo i Militi ad usare la forza per strapparlo dalle braccia della moglie e da quelle dei figli.
Emilio De Bono è un altro che si considera super partes. Maresciallo d’Italia, quasi ottantenne, è un monumento nazionale; chi oserebbe fare del male ad un alto ufficiale amico personale di Mussolini? Anche lui non ha capito che la direzione del vento è cambiata, che gli alti ufficiali sono comunque considerati come pedine del Re (e quindi detestabili) e che il Duce di amici non ne ha mai avuti. Quei pochi erano per lui solo strumenti da utilizzare per realizzare qualche suo vanitoso progetto. Tutto quello che Mussolini fa per l’anziano Maresciallo è dare disposizioni affinché sia trattenuto, anziché in prigione, agli arresti domiciliari. Che lo si lasci nella villa di Cassano d’Adda dove vive da solo con una anziana domestica.