ia Ciano sia De Bono avevano richiesto ai Giudici che venisse sentito in loro difesa lo stesso Mussolini. De Bono aveva fatto la richiesta ingenuamente, confidando sul fatto che in vent’anni fra lui e il Duce non c’era mai stato “alcun intermediario”. Ciano aveva chiamato in causa Mussolini con un intento volutamente provocatorio. Perso per perso, il mancato delfino del regime si toglieva almeno lo sfizio di mostrare che non aveva più paura né rispetto per nessuno. Il salone di Castelvecchio è addobbato in modo lugubre. Il lungo tavolo intorno al quale siedono i giudici, tutti in borghese e con la camicia nera, è coperto da un tappeto rosso scuro. Dietro ai giudici è appeso un grande arazzo nero con un fascio littorio in oro. L’aula è gelida e mal illuminata. A un tavolo a fianco di quello dei giudici siede il Pubblico Ministero, l’Avvocato Fortunato. Dietro agli imputati, seduti su sei sedie poste su una pedana, sono schierati gli Allievi Ufficiali che li hanno condotti fuori dal carcere. Sono dei giovani con elmetto e mitra ad armacollo. Il presidente Vecchini è stato avvisato che “I fascisti si aspettano dai giudici una esemplare severità”. Il collegio di difesa tenta una prima obiezione, eccependo che alcuni degli imputati sono militari in servizio e che quindi devono essere giudicati da un Tribunale Militare. Ai giudici servono pochi minuti per respingere l’eccezione. Il Pubblico Ministero Fortunato si rivolge con veemenza agli Avvocati difensori dicendo: “Non è sollevando questioni pregiudiziali che si aiuta la causa della Patria e della Storia!”.
Gli imputati tengono in aula comportamenti diversi: tranquillo e con l’aria distratta Ciano, agitato e lacrimevole Marinelli. Il vecchio De Bono fa chiaramente fatica a sentire e continua a portare la mano destra a imbuto vicino all’orecchio. Spesso si rivolge a Ciano per chiedere spiegazioni. Apparentemente calmi gli altri. L’interrogatorio del presidente Vecchini non può che riprendere i punti già trattati da Cersosimo in istruttoria. Il giudice dà comunque per scontato che il voto favorevole del 25 Luglio costituisce di per se un atto di “tradimento”. Le domande rivolte agli imputati non hanno, per lo più, alcun contenuto “giuridico”. <Lei, Marinelli, da tanti anni vicino al Duce, perché lo ha tradito?>; <Lei Ciano, come ha potuto tradire il nonno dei suoi figli?>. Da parte dell’accusa si tenta anche di dimostrare una collusione tra gli imputati e il Maresciallo Carlo Cavallero, il cui famoso memoriale, trovato “casualmente” dopo la fuga del Re e di Badoglio a Brindisi, aveva svelato che la ribellione già covava negli alti gradi dell’esercito. La collusione non c’era, ma in fondo questo era ben poca cosa. La sentenza era già scritta da quel dì: da quando, dalla Radio di Monaco, il neoDuce, rimesso in sella dalle baionette tedesche, aveva enunciato i “postulati” della Repubblica Sociale. Tra essi vi era quello, già menzionato, di “Eliminare i traditori e in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 Luglio militavano, talora da parecchi anni, nelle file del partito e sono passati nelle file del nemico”.
Per nessuno degli imputati era possibile dimostrare che fosse “passato al nemico”. Il che non era, comunque, un problema. Si era stabilito tout court che “Il voto del 25 Luglio minava lo spirito combattivo del Paese e come tale favoriva oggettivamente il nemico”. Martedì 10 gennaio 1944, la sentenza: morte per tutti gli imputati, ad eccezione che per Tullio Cianetti. Grazie alla sua ritrattazione del voto se la cava con una condanna a trent’anni di reclusione. Il vecchio Maresciallo De Bono fatica a intendere le parole del presidente Vecchini e, come al solito, si rivolge per chiedere chiarimenti a Ciano. Questi, con indifferenza, indica Cianetti: “Solo lui si salva, per noi è finita, morte per tutti”.
La storia di tutte le dittature è ricca di farse giudiziarie e di tribunali che giudicano avendo già scritto la sentenza anzi tempo. Seppur perversa, queste mostruosità giuridiche rispondono in genere ad una logica stringata: la dittatura consolidata, o comunque già molto avanzata sulla strada della stabilizzazione, intende eliminare gli avversari, dando nel contempo un monito generale, una manifestazione di potenza. Ottiene con la pubblicità del Processo un risultato ben maggiore di quello che avrebbe ottenuto con la semplice eliminazione fisica degli avversari. Il miglior esempio in questo campo ci viene dato dai processi delle famose purghe staliniane. Il Processo di Verona ha invece un fondo di illogicità che colpisce. La RSI nasce come Stato evanescente, già militarmente sconfitto, privo palesemente di consenso popolare. Il Partito-guida ha bisogno di una Polizia per proteggere sé stesso.
In questa situazione non avrebbe stupito se Ciano (che di fatto era l’obiettivo del Processo) fosse stato eliminato, di nascosto, da un killer sconosciuto. La celebrazione di un Processo e la finzione legalitaria costretta, per mandare a morte gli avversari, a prevaricare ogni regola del diritto penale non hanno avuto una loro funzionalità. Sono state, addirittura, un boomerang. La popolazione o è rimasta indifferente (considerando il processo come una faida tra fascisti) o è inorridita da una crudeltà che aveva come unico fondamento il desiderio di vendetta. Il risultato è stato, comunque, quello di approfondire il solco che divideva, ormai irrimediabilmente, il popolo italiano dal Partito Fascista di Mussolini. In tutta la vicenda, il Duce ha avuto un comportamento emblematico che rispecchia la crisi finale del sistema da lui stesso creato. Poteva bloccare tutto perché, nella confusione di poteri in cui si dibatteva la RSI, lui era l’unica persona che aveva ancora un ascendente carismatico. Poteva fermare la stessa celebrazione del Processo, avendone l’autorità, ma non lo ha fermato. Poteva impedire le fucilazioni perché, aldilà del fatto che le domande di grazia non fossero mai arrivate sul suo tavolo, era al corrente della sentenza capitale emessa dal Tribunale. Pur essendo angosciato e in preda a tremendi sensi di colpa, non ha compiuto nemmeno questo gesto nei momenti drammatici dell’epilogo. Si è dimostrato insensibile alle sollecitazioni disperate della figlia Edda che lottava per la salvezza del marito. In un colloquio col cappellano del Carcere degli Scalzi, Monsignor Chiot (aveva assistito i condannati), Mussolini ha tentato una disperata autodifesa. Ha addossato ad imprecisati “altri” la colpa dell’accaduto ed ha enfatizzato la propria sofferenza di uomo tradito da tutti: abbandonato anche dalla figlia prediletta. Sarebbe stato lui la vera vittima di certi avvenimenti storici ineluttabili. Ma a ben guardare il “non decidere” di Mussolini ha avuto, in questa circostanza, la connotazione del comportamento di un uomo che aveva ormai perso anche l’istinto della sopravvivenza. E con lui anche gli altri protagonisti: Pavolini e i giudici di Verona. Hanno vissuto quel distacco dalla realtà, un sogno utopico irrealizzabile, dicendo, all’apertura del Processo di Verona, che l’assise veneta era il cardine cruciale su cui ruotava tutta la vicenda della Repubblica mussoliniana. In realtà è stato l’evento che meglio di ogni altro l’ha caratterizzata e che ne ha determinato l’infausto destino. Con quel Processo la neonata Repubblica di Salò ha condannato a morte anche sé stessa. Caso unico nella Storia, si è autoproclamata uno Stato, costituito da pochi soggetti, che si reggeva solo sulla forza della vendetta. Tutto ciò che ne è scaturito, fino alla tragica “macelleria messicana” di piazzale Loreto, è stato costruito a Verona. Nessuno può revocare in dubbio questa laconica osservazione.
Per chi vuole approfondire:
BERTOLDI, S., Apocalisse italiana. Rizzoli, 1998.
BIAGI, E., Il crepuscolo degli dei. Rizzoli, 1961.
CEROSIMO, V., Dall’istruttoria alla fucilazione. Garzanti, 1949
CIANO, E., La mia testimonianza. Rusconi, 1975.
CIANO, E., La mia vita. Mondadori, 2002.
DEOTTO. P. Processo di Verona. www.storiain.net. Reperibile per via telematica.
DOLFIN, G., Con Mussolini nella tragedia. Garzanti, 1949.
GUERRI, G. B., Galeazzo Ciano. Una vita. Mondadori, 2001.
GUERRI, G. B., Un amore fascista. Mondadori, 2005.
INNOCENTI, M., Mussolini a Salò. Mursia, 1996.
INNOCENTI, M., Edda contro Claretta. Mursia, 2003.
MAYER, D., La verità sul processo di Verona. Mondadori, 1945.
MONELLI, P., Mussolini piccolo borghese. Garzanti, 1972.
MONTAGNA, R., Mussolini e il processo di Verona. Omnia, 1949.
MOSELEY, R., Ciano, l’ombra di Mussolini. Mondadori, 2002.
MOSELEY, R., Mussolini. I giorni di Salò. Lindau, 2006.
SETTIMELLI, E., Edda contro Benito. Casa Editrice Corso, 1952.
SILVESTRI, G., Albergo agli Scalzi. Neri Pozza, 1963.
SPINOSA, A., Edda. Mondadori, 2001.
VERGANI, O. Ciano. Una lunga confessione. Longanesi, 1974.