Quanto conta l’età in politica? Molto, in tutti i sensi. Solo che in certi Paesi vengono premiate le generazioni più giovani, vale a dire che la bassa età anagrafica di un politico è un titolo di merito.
(vi si intravede la novità, la freschezza, la capacità di stare al passo dei tempi), mentre in altri si preferisce non rischiare e affidarsi all’«esperienza». Il che a volte, però, fa sì che ci si affidi a politici in età da pensione.
Sul punto assai spesso la stampa europea stila classifiche e brevi rapporti, da cui l’Italia esce con le ossa rotte. Come scrisse qualche tempo fa William Underhill su «Newsweek», «in Italia sembra che il premio per la longevità sia un’alta carica e, di conseguenza, la leadership politica è perennemente più vecchia di qualsiasi omologo degli altri Paesi».
Difficile dargli torto: il primo ministro uscente ha 68 anni, e si contrappone al leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi, che legislatura dopo legislatura ha oltrepassato i 71. Il candidato premier del Partito democratico è arrivato ad abbassare la media, avviandosi verso i 53 anni; un ragazzo, secondo gli standard nostrani, che deve confrontarsi con i titolari delle cariche di vertice in Europa: Nicolas Sarkozy ha 52 anni; Angela Merkel 53, Gordon Brown 56, l’appena riconfermato Josè Luis Rodriguez Zapatero 47. Lo stesso presidente della Commissione europea, il portoghese Josè Manuel Barroso ha 52 anni.
La campagna elettorale in vista delle elezioni del 13 e 14 aprile ha cercato di dare una verniciata di nuovo al palazzo della politica italiana: le liste elettorali in molti casi sono state popolate, e in alcuni casi aperte, di candidati anagraficamente davvero giovani (e da un numero insolitamente alto di donne). Tra meno di un mese vedremo quale sarà la composizione del nuovo Parlamento, per il momento bisogna accontentarsi della facciata ridipinta.
Del resto il problema generazionale non affligge soltanto la classe politica, ma più in generale gran parte della classe dirigente di un Paese in cui senatori ultra ottuagenari svolgono un ruolo tutt’altro che onorifico e marginale.
Un problema di equilibrio tra generazioni, che comporterà dal 2050 un pensionato ogni due persone in età lavorativa. Scrive ancora Underhill: «Le politiche che emergono da questo sistema pietrificato sono quelle che ci si potrebbe aspettare: i legislatori sono lenti a superare un sistema pensionistico che ingoia il 15 per cento del Pil. E le modifiche proposte riflettono una sospetta mentalità da anziani che prevale sulla modernità».
Come ha sostenuto Gianluca Violante, un economista della New York University, «in Italia non arrivi in cima perché sei giovane, ambizioso e di talento, ma perché resti in attesa abbastanza a lungo e a un certo punto, finalmente, arriva il tuo turno». Cambierà qualcosa durante la prossima legislatura?