UN SORPASSO PREOCCUPANTE O PROVVIDENZIALE? I musulmani hanno superato i cattolici nel mondo. La notizia non è nemmeno così sensazionale perché da almeno un anno nelle riviste di settore veniva sottolineato questo fatto. Ciò che la fa diventare notizia da prima pagina, tanto che anche i quotidiani nazionali si sono accorti, è la fonte di questo dato, l’Annuario Pontificio, edito ogni anno dalla Santa Sede. Ma anche perché la notizia arriva proprio una settimana dalla conversione più mediatica della storia, Magdi Allam diventato Magdi Cristiano Allam, benedetto, battezzato, cresimato e comunicato dal Pontefice nel giorno di Pasqua.
I numeri dicono che nel 2006 i cattolici erano il 17,4% della popolazione mondiale, cioè un miliardo e i musulmani il 19,2% cioè un miliardo e 322 milioni di fedeli. Sorpasso avvenuto.
Mons. Formenti, responsabile dell’Annuario Pontificio o “Libro rosso” come viene chiamato, cerca di dare una spiegazione demografica: i paesi di tradizione Islamica procreano più figli dei paesi di tradizione cattolica. E un sorriso benevolo non può non scappare.
Poi con il giusto orgoglio di chi non è mai arrivato secondo – precisa Mons. Formenti – che se si sommano tutte le Chiese Cristiane (Cattolici, Ortodossi, Anglicani e Protestanti) si ritorna primi e con uno scarto che non lascia spazio a discussioni: 33%. Secondo sorriso.
Altra sottolineatura del prelato Vaticano è sul numero dei sacerdoti, in aumento di 700 unità, dato numerico che ha felicitato il Papa, e anche noi sorridendo per la terza volta. Mentre Mons. Formenti cambia discorso elencando le preziosità del suo lavoro, noi ritorniamo alla notizia principale.
Diciamolo serenamente: non ha senso contare i fedeli di due grandi religioni come se fosse la corsa elettorale per dei seggi da conquistare. E poi come vengono classificati i fedeli? Come fanno a stabilire chi è Cattolico, Islamico, Protestante, Buddista? Per essere Cattolico da Annuario basta il battesimo o serve anche la partecipazione alla messa domenicale? o bisogna addirittura fare una professione di fede?
I numeri aiutano a volte a fare qualche riflessione, ma spesso corrono il forte rischio di seguire le più mondane logiche dell’audience televisiva o il trend di una azienda quotata.
Una cosa è certa: dobbiamo sempre di più, credenti o no, fare i conti con un mondo islamico che non è solo un mondo religioso – con posizioni così integraliste a volte, da far gridare allo scandalo noi immersi nella cultura occidentale – ma è anche una istituzione socio-politica (che non è poco!!), le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Siamo (e saremo sempre più) chiamati a confrontarci con certe usanze islamiche che cozzano con quella che è la sensibilità comune della cultura occidentale contemporanea, italiana in particolare, ma europea e occidentale in generale, costituendo quindi un ostacolo alla integrazione e alla serena mutua comprensione. Questo è indubbio. Spesso le nostre conoscenze sono fatte di preconcetti, di stereotipi (come avviene esattamente con il cattolicesimo) che creano leggende e portano a conclusioni che non hanno niente a che vedere con la religione.
“Conoscere” e “rispettare” chiedono un approfondire con i giusti testi per capire che cosa sia realmente islamico; cosa fa parte di quel mondo dove indubbiamente il rapporto uomo-donna, il rapporto fra i sessi, l’istituzione familiare, sono visti ancora con dei parametri e inseriti in certi contesti culturali molto diversi dai nostri. Allora perché attribuire all’Islam in generale delle cose che sono dovute magari al degrado sociale o alla situazione economicamente difficile di certe aree culturali? Oggi c’è questa polemica sulla poligamia, sul ripudio, sul divorzio, sulla violenza, sulla guerra; temi che vanno affrontati indubbiamente, ma non mischiando le differenti tematiche. Ci sono questioni giuridiche, tecniche, che vanno affrontate, poiché lo Stato italiano ha delle sue normative specifiche, e ci sono delle questioni culturali sulle quali si può addivenire tranquillamente tramite una situazione di compromesso, senza dover arrivare a scontri, anche polemici, fra culture così radicate.
Una cosa è certa: il mondo contemporaneo impone di rivedere la modalità di pensare la fede cristiana e la presenza della Chiesa Cattolica. Potrebbe anche essere, ed è quello che un fedele in ricerca si augura, che questi dati inducano i cattolici a un ritorno alla spiritualità delle origini, e, come afferma il Teologo Mancuso, a riprendere quelle pagine della scrittura dove si parla di “Piccolo gregge” , forse meno potente nella logica istituzionale, ma più credibile in quella spirituale. C’è forse il bisogno non di Una Chiesa nuova, legata alle mode correnti e alla cultura vincente, ma che si riprenda in mano la Magna Carta del discorso della montagna, abbandonando i più temporali testi e le ambizioni terrene che potrebbero indurre le novantanove pecore alla fuga. Una Chiesa che non abbia paura di fare i conti con un passato che la giudica pesantemente, per costruire un presente capace di liberarsi di quelle frange che la tengono ancora legata ad appartenenze ambigue confondendo le persone. Una Chiesa che, proprio perché legata alle persone, crei una cultura politica, non faccia politica, crei una cultura dell’uomo senza ingerenze ormai diventate fastidiose anche quando giuste, che stia accanto alle persone senza il peso del giudizio, ma solo quello della condivisione. Una Chiesa che non si affidi ai personalismi che spesso fanno deviare, ma ai testimoni che sono credibili proprio perché protagonisti del concreto, immagine di un vangelo reale e ancora possibile. Una Chiesa che abbia il coraggio di dirsi con verità le proprie fragilità, le proprie incoerenze, le proprie assurdità, senza per questo togliere nulla di quello che è la sua essenza: la ricerca del volto di Dio e del suo messaggio di Amore.
Un sorpasso che rischia di essere irreversibile se non si ha la forza e il coraggio, mischiata all’energia profetica messa in atto da Giovanni XXIII ormai quarant’anni fa, di annunciare una fede che si sa incarnare nella storia e che quindi affronta i problemi degli uomini convinti che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”; di annunciare una fede che riparte dal Vangelo, rivoluzionario se si ha la forza di metterlo in pratica anche dopo duemila anni; di annunciare una Chiesa che non ha paura del dialogo, faticoso certo, ma indispensabile per quell’unità persa da troppi secoli per l’esaltazione dei propri particolarismi tutt’altro che evangelici.
E se il segreto fosse proprio quello di riascoltare quel Gesù Cristo, l’unico vero riferimento per chi si definisce cristiano, che tra le altre cose ha detto: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.”
Sorpasso provvidenziale se questo permetterà ad entrambe le realtà religiose di guardarsi indietro e accorgersi di essere partiti dallo stesso deserto di Mamre, dallo stesso Padre Abramo, con la stessa ricerca di un Dio che non aveva nome, o meglio, che quel nome era così grande che darGli un nome era già bestemmia.
Il confronto allora non dovrebbe essere sui numeri, sui primati raggiunti, figuriamoci sulle lotte, sulle conquiste a suon di morti, di contrapposizioni muro contro muro, di guerre fatte nel nome dello stesso Dio.
Oggi la “gara” è cruenta in nome delle differenze, muro contro muro, a volte toccando livelli a dir poco aberranti.
Sicuramente gli sconfitti non sono l’Iman, il Papa, i Vescovi, lo sceicco ma il grande sconfitto è Dio, in qualunque nome lo chiami