Storia e prospettive dei cristiani in Iraq

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I cristiani iracheni, di ogni denominazione (1), sono forse residui di minoranze da lasciar partire o morire nell’immane guerra in atto sul territorio iracheno, oppure sono Chiese vive….. radicate nelle tradizioni bibliche e apostoliche di Gerusalemme, di Antiochia e della Mesopotamia, ed eredi di una storia e di un passato teologico e mistico? Sono forse gruppi estranei al mondo arabo-musulmano, da identificare con le crociate moderne e con l’egemonia statunitense, o sono Chiese orientali radicate da millenni nella storia e nella geografia del Vicino Oriente? Quale perdita per l’islàm, per il mondo occidentale e per Israele, se la cristianità dell’Iraq dovesse scomparire! Le minoranze del Vicino Oriente dovrebbero forse pagare il prezzo della globalizzazione o del cosiddetto «scontro di civiltà»? O la loro permanenza attraverso tutte le disavventure della storia sarebbe un segno di speranza, di rispetto e di giustizia per il mondo intero?

Questi interrogativi ci introducono nel vivo del nostro tema. Infatti, dopo il genocidio armeno del 1915, di cui furono vittime anche caldeo-assiri e siriaci, la guerra in Iraq, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nell’aprile 2003, ha scatenato persecuzioni contro i cristiani, spingendo molti ad abbandonare le loro case per cercare rifugio nel Kurdistan iracheno o addirittura in Giordania, Siria, Libano e Turchia. Attacchi contro le chiese e le sedi episcopali a Baghdad e a Mossul, sequestri di cristiani e, in particolare, dell’arcivescovo di Mossul  — la salma di mons. Paulos Faraj Rahho è stata rinvenuta il 13 marzo scorso, mentre erano in corso trattative per il suo rilascio — e di alcuni sacerdoti; massacri di religiose, preti e diaconi, pressioni sui cristiani del quartiere Dora (Baghdad) perché paghino la jizya (2) o lascino le loro case… Ogni atto di violenza perpetrato contro un cristiano provoca l’esodo di intere famiglie da Bassora, Baghdad, Mossul e Kirkuk, quattro grandi città dove i cristiani vivevano da sempre in pace con le grandi confessioni ed etnie dell’Iraq: sciiti, sunniti, curdi e turcomanni. Si chiudono chiese per ragioni di sicurezza, e sono stati trasferiti nel Kurdistan il seminario maggiore e la facoltà di teologia Babel College. Si dice che metà dei cristiani iracheni abbiano lasciato le loro case, un quarto verso il Nord, nel Kurdistan, un altro quarto verso i Paesi limitrofi: Giordania, Siria, Libano e Turchia (3), in attesa di poter emigrare verso Paesi sicuri, liberi e ricchi.

Tuttavia, nonostante le disgrazie che si sono abbattute sul popolo iracheno, dopo il conflitto tra lo Stato e i curdi, al Nord, passando attraverso le lotte all’interno del potere tra i vari partiti, e infine la guerra con l’Iran e l’occupazione del Kuwait con le sue nefaste conseguenze, nonostante tutto questo, si nota che gli iracheni, e in particolare i cristiani, rimangono molto legati al proprio Paese. Fa impressione constatare che i cristiani dell’Iraq sono pienamente iracheni e profondamente cristiani. Avvicinandoli, come noi li abbiamo conosciuti, sia all’interno dell’Iraq sia in Siria ove molti di loro si sono rifugiati, si nota una duplice appartenenza molto pronunciata: sono veri cristiani e veri iracheni. Non abbiamo il diritto di parlare di inculturazione di questi cristiani, poiché sono a casa loro da sempre e hanno acquisito l’arte di essere se stessi, fieri della loro appartenenza religiosa, con una grande capacità di integrazione — sono cittadini con tutti i diritti civili — e una grande facilità a vivere con tutte le categorie dei loro concittadini, senza complesso di persecuzione né di disprezzo dell’altro. È vero che, secondo una certa legge di ogni Paese a maggioranza musulmana, il cristiano è un dhimmi (4); ma il cristiano dell’Iraq ha assunto positivamente il suo statuto senza che ciò modifichi in profondità la sua identità di credente. Questo ci pare un capolavoro di integrazione, la capacità cioè di rimanere se stessi, pur rispettando l’altro sino ad assimilarne i migliori elementi culturali e religiosi (5). Se i cristiani iracheni danno testimonianza di un attaccamento indefettibile al loro Paese, se soffrono molto a causa della guerra e delle sue distruzioni e perdite, è perché essa fa loro perdere un tesoro, un’identità ricca di storia, di sapienza e di educazione. E tale identità ha radici bibliche profonde, risalenti sino alla storia di Abramo (cfr Gn 11,31), e si incarna allo stesso tempo in un determinato presente, con una capacità di ascolto e di dialogo con il mondo arabo-musulmano

Per una migliore comprensione della complessa realtà dei cristiani dell’Iraq, ricordiamo brevemente la storia di tale cristianità (6). Ovviamente sarà difficile, nei limiti di un articolo, percorrere una storia che abbraccia duemila anni. Tuttavia, sfruttando lavori di specialisti competenti, cercheremo di soffermarci sugli aspetti storici che meglio possono spiegare la realtà dei cristiani dell’Iraq odierno.

Compendio storico e geografico

Non possiamo parlare dell’Iraq di ieri e di oggi senza riferirci alla sua geografia. Gli storici dell’antichità hanno sempre distinto tre regioni nel cosiddetto odierno Vicino Oriente, cioè la Mesopotamia, il Canaan (Fenicia-Siria) e l’Egitto. Mentre l’Egitto e Canaan si affacciano sul Mediterraneo, con un’apertura sulla cultura greco-romana; la Mesopotamia invece è delimitata dal Tigri e dall’Eufrate ed è rivolta verso l’Asia. Come dire che i cristiani dell’Iraq sono stati segnati sin dall’inizio dalla ricerca di una certa autonomia, che li separava da Antiochia e da Bisanzio aprendoli a uno slancio missionario verso l’India e la Cina.

Infatti, fin dal IV secolo, la Chiesa in Iraq, che agli inizi era chiamata «la Chiesa di Persia», è sopravvissuta alle persecuzioni di Chapour II e ha ottenuto l’autonomia religiosa sotto l’autorità di un patriarca residente a Seleucia-Ctesifonte. Al Concilio di Efeso del 431, la Chiesa di Oriente è al centro delle dispute cristologiche che la condurranno a isolarsi per l’accusa di nestorianesimo (7). Questa situazione di autonomia la spinge a diffondere il Vangelo sino alle estremità dell’Asia. Oggi molti storici della Chiesa trovano nell’espansione della Chiesa d’Oriente dal VI al XII secolo un modello di inculturazione, prima dell’arrivo dei missionari latini in India e in Cina. Quest’attività missionaria in Asia, con la traduzione della fede cristiana nel linguaggio delle popolazioni evangelizzate, è un settore che dovrà essere meglio studiato e interpretato dagli storici della Chiesa.

Arrivata in India e in Cina, la Chiesa d’Oriente raggiunge il suo apogeo intellettuale con il regno degli Abbasidi a Baghdad (750-861). Nella storia degli inizi dell’islàm, non si può ignorare l’importanza degli Ommiadi a Damasco (660-750) e degli Abbasidi a Baghdad. Ora, nei due periodi succedutisi tra il VII e il IX secolo, i cristiani hanno svolto un ruolo importante in ambito intellettuale in diversi settori: filosofia, medicina e amministrazione. A Baghdad i cristiani nestoriani e giacobiti hanno contribuito alla traduzione del pensiero greco in arabo, dopo averlo in precedenza tradotto in siriaco, nelle loro scuole di Nisibi e di Edessa. Possediamo elenchi di medici cristiani e ritroviamo famiglie distintesi per la loro scienza al servizio dei califfi, contribuendo così alla diffusione dell’umanesimo arabo. Anche qui abbiamo un modello di integrazione: scienziati cristiani di lingua siriaca, e talora diaconi dediti alla liturgia della propria Chiesa, si sono allo stesso tempo impegnati al servizio di una riflessione filosofica e della scienza medica. Troviamo patriarchi e vescovi invitati a dibattere problemi teologici alla presenza del califfo. Possiamo considerare questo periodo come l’epoca aurea dei cristiani dell’Iraq: le province e i vescovadi si moltiplicano sotto la direzione del grande patriarca Timoteo I (780-823) attraverso tutta l’Asia, compresa la Mongolia.

Attivi a fianco degli arabi abbasidi, i cristiani della Chiesa d’Oriente hanno sperato in un dato momento, nei secoli XIII-XIV, di convertire i mongoli al cristianesimo; il loro sovrano, però, finì con aderire alla religione della maggioranza dei suoi sudditi, che erano musulmani, mettendo così fine alla speranza di uno Stato mongolo cristiano.

A partire dal 1363, Tamerlano avvia una politica di distruzione (il numero dei nestoriani e dei siriaci in Asia centrale raggiunge i 70 milioni in Cina, poi con la Mesopotamia). Impadronitosi di Baghdad nel 1392, fa scomparire il cristianesimo da quella regione per due secoli. I cristiani della Chiesa d’Oriente si rifugiano definitivamente tra le montagne, ai confini turco-persiani e, a partire dal 1451, fondano uno Stato teocratico. Il patriarcato diventa ereditario, con decisione presa dal patriarca Simone IV (1437-1477) (8).

Nel 1534 la  Mesopotamia entra nell’impero ottomano, e il regime delle capitolazioni si estende dunque a questa nuova provincia turca sin dall’anno seguente, sotto la protezione della Francia, co-firmataria di quegli accordi bilaterali. Roma procede all’invio di missionari cappuccini a Diarbekir, riprendendo così il dialogo con la Chiesa d’Oriente. Con l’elezione a patriarca di Yohanna Soulaqa ad opera di alcuni vescovi, e la sua conferma nel 1553 da parte di Papa Giulio III, nasce la Chiesa caldea unita a Roma (9); l’unione con Roma, però, dividerà la Chiesa d’Oriente in caldei (cattolici) e assiri (separati da Roma) (10).

Non possiamo concludere questa panoramica storica senza accennare all’epoca contemporanea, che inizia con il genocidio del 1915 e ci conduce sino a oggi, nel cuore dell’ormai cosiddetta guerra dell’Iraq. Si è parlato giustamente di genocidio degli armeni, perpetrato dai turchi e dai curdi nel 1915, essendo gli armeni cristiani in maggioranza. Ma molti cristiani, caldei, assiri, siriaci, giacobiti e cattolici della Mesopotamia sono stati parimenti trucidati. Per quanto riguarda i cristiani della Chiesa d’Oriente, si ritiene che la metà dei fedeli (70.000) siano stati passati a fil di spada. La lettura del diario di quei massacri, scritto dal padre Jacques Rhétoré, può offrire informazioni sinora sconosciute (11).

Perciò, oggi, vedendo arrivare le famiglie in fuga dall’Iraq verso la Giordania, la Siria, il Libano e la Turchia, non possiamo non fare un passo indietro di cento anni e leggere sui loro volti straziati l’esperienza vissuta dai nostri genitori e da nostri nonni nel 1915. Con i massacri del 1915, quattro diocesi scompaiono in Turchia: Mardine, Diarbékir, Seert, Jazirat ibn Omar e quattro giovani vescovi vengono trucidati (Addi Chér, Thomas Audo, Yacoub Oraha, Thomas Racho), senza dimenticare una cinquantina di sacerdoti martiri. Non possiamo passare sotto silenzio la data del 1933, concernente soprattutto gli assiri. In quell’anno gli assiri delle montagne del Nord dell’Iraq si sollevarono per reclamare, con l’aiuto degli inglesi, un governo assiro autonomo; quegli assiri furono poi abbandonati dagli inglesi e sterminati dall’esercito iracheno. Lo Stato francese, mandatario in Siria, li accolse nella cosiddetta regione del fiume Khabur, dove risiedono tuttora formando 36 villaggi assiri.

I cristiani nell’Iraq moderno

Dopo l’indipendenza del nuovo Stato iracheno nel 1933, i cristiani dell’Iraq, specialmente gli assiro-caldei, sono attratti da due tendenze: gli assiri si contraddistinguono maggiormente per un nazionalismo politico, mentre i caldei, per il loro attaccamento alla Chiesa di Roma, si considerano cittadini leali, pur essendo sostenuti dall’universalità della Chiesa cattolica. Oggi gli assiri sono caratterizzati dall’idea della Chiesa-nazione, un po’ come gli armeni, anche se non hanno mai formato, in quanto cristiani, uno Stato ben definito; sono sempre stati cittadini di grandi imperi avendo regnato sull’Iraq (12). Tale situazione rafforza il polo politico e nazionale nel governo della Chiesa assira. Con tale atteggiamento, gli assiri cercano di difendere la propria particolarità di cristiani orientali, eredi della tradizione apostolica, avendo come lingua l’aramaico, la stessa lingua di Cristo. Nell’emigrazione, che diventa sempre più rilevante, all’interno sia dell’Iraq sia dei Paesi del Vicino Oriente (Siria, Libano, Iran), gli assiri si distinguono per un attaccamento indefettibile alla loro lingua, alla loro liturgia e alla loro storia, e difendono, con gli altri cristiani di lingua siriaca, il progetto di una nazione assira.

Il confronto con la Chiesa caldea, che è una Chiesa sorella, può aiutarci a situare meglio gli orientamenti teologici di base. Occorre anzitutto ricordare che il clero caldeo è formato in maggioranza nel seminario patriarcale dell’Iraq, il seminario Saint-Jean, diretto dai domenicani francesi, e nelle università romane. Inoltre, il Concilio Vaticano II, con la sua visione della Chiesa-comunione e con il suo impegno in favore dell’ecumenismo, segna profondamente gli orientamenti e le scelte della Chiesa caldea; questa rimane molto travagliata per un attaccamento alla sua particolarità linguistica, liturgica, geografica e storica, ma anche per la sua comunione con la Chiesa di Roma e per la sua apertura all’universale. Nonostante tutte le difficoltà che alcuni prelati caldei hanno avuto con Roma — soprattutto il patriarca Joseph Audo (13) —, rimane il fatto che la Chiesa caldea ha una propria personalità teologica, patristica e liturgica, ed è capace di comunicare alle altre Chiese la sua tradizione, come essa stessa può attingere alle fonti della Chiesa universale.

Le prove cui sono sottoposti i cristiani dell’Iraq e tutti gli iracheni non lasciano indifferenti i cristiani del Vicino Oriente: la Terra Santa (Palestina e Israele), la Siria, il Libano, l’Egitto, l’Iran e la Turchia. Queste Chiese orientali stanno forse per scomparire — come afferma Jean-Pierre Valognes (14) — e la soluzione è forse preparare le nuove generazioni a emigrare verso terre più tranquille? Forse è anche la soluzione proposta da politici e da economisti. La Chiesa, però, pur rimanendo in ascolto delle preoccupazioni della gente, cerca di preparare un futuro di pace e di giustizia, non soltanto per i propri fedeli, ma per ogni uomo degno di questo nome.

Al progetto statunitense di un’amministrazione indipendente della piana di Ninive, nella quale i cristiani potrebbero raggrupparsi, la Chiesa dell’Iraq risponde con determinazione di appartenere all’Iraq unificato. I cristiani scelgono di vivere in fraternità con tutti, con lo sciita e con il sunnita, con il curdo e con il turcomanno. Con tale opzione, la Chiesa chiede ai cristiani di scegliere la cittadinanza irachena e difende lo Stato di diritto. In questo modo, i cristiani, pur essendo minoranza, contribuiscono alla riconciliazione e alla coesione dell’Iraq.

Esperti di convivenza con tutte le confessioni musulmane e con tutte le etnie dell’Iraq — specialmente con i curdi e con i turcomanni —, i cristiani possono essere garanzia della riconciliazione e ponte di dialogo tra l’islàm e il mondo moderno. I cristiani dell’Iraq, come del resto quelli del Vicino Oriente in genere, devono essere consapevoli della vocazione che oggi incombe su di essi. È nel momento della prova che si può annunciare una parola di vita e schiudere un futuro per le persone che ci stanno attorno. Se si sogna un mondo facile, se si emigra per sfuggire alle difficoltà e scegliere soluzioni di comodo, un mondo di seduzione e di sicurezze egoistiche, quale gusto avrà ancora la vita?

I cristiani del XX secolo sono stati travolti da due guerre mondiali e hanno attraversato totalitarismi funesti, mentre difendevano democrazie fiorenti in Occidente. D’altro canto, essi sono in ascolto del mondo moderno e della sua razionalità; hanno imparato a vivere in società pluraliste e a favorire il rispetto dell’alterità. L’Europa ricompone la sua unità, e la Chiesa ricorda che la prima non deve fondarsi unicamente sull’efficienza economica, ma anche su valori spirituali le cui radici sono bibliche. I cristiani orientali, essi pure eredi di tali esperienze intellettuali e politiche, devono attingere a questo patrimonio dell’umanità per dialogare con il mondo arabo e musulmano. Se i cristiani abbandonassero il Vicino Oriente, chi potrebbe sostituire coloro che sono già integrati in questa cultura araba e islamica? Partire, cedere il posto, emigrare, scegliere un vantaggio immediato, significa tradire la propria vocazione e fare il gioco di tutti gli integrismi. Indubbiamente esistono alcune tendenze nel mondo arabo-musulmano che scelgono l’estremismo, e un tale comportamento può spingere alla disperazione. Ma nell’islàm c’è pure la ricerca della giustizia, il desiderio di vivere degnamente come fratelli, la sete di essere riconosciuti e rispettati, il timore di una modernità distruttrice.

A questo punto dovremmo ricorrere alle lezioni della storia, affinché le difficoltà presenti non si ergano davanti ai nostri occhi come un albero che nasconde la foresta. Le lezioni della storia arabo-musulmana ci dicono che i cristiani hanno sempre saputo fare la scelta della mediazione e della ragione, in epoche chiave di questa medesima storia. Lo abbiamo detto a proposito dell’epoca degli Omayyadi e degli Abbasidi e bisognerebbe aggiungere l’epoca del rinascimento della fine del XIX secolo. Per mezzo della ragione e della cultura il cristiano potrebbe essere testimone e difensore di una libertà per se stesso e per gli altri; rispettoso della legge degli altri — qui soprattutto della legge coranica —, è capace di aprire un campo di libertà dove l’alterità possa respirare e crescere.

Del resto, i cristiani orientali, e tra loro oggi gli iracheni, devono essere incoraggiati e sostenuti nel loro compito dai fratelli occidentali. In verità, la Chiesa cattolica, in quanto tale e attraverso la sua diplomazia e le sue opere di beneficenza, fa di tutto per consolidare una vocazione e difendere un’identità. Così pure, segni di simpatia da parte dei loro fratelli musulmani, come pure un discorso musulmano moderato e rispettoso, potrebbero contribuire efficacemente a far progredire la causa degli Stati di diritto nel Vicino Oriente.

Concludendo, riportiamo una riflessione di Papa Benedetto XVI, quando, nel 2004, era ancora il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «A mio parere, in parte almeno, la crescita stessa del fondamentalismo è provocata da un laicismo accanito. Si tratta di una ripulsa di questo mondo che rifiuta Dio e il rispetto del sacro; che si sente completamente autonomo, che non conosce leggi innate della persona umana e che ricostruisce l’essere umano secondo i propri schemi di pensiero. Questa perdita del senso del sacro e del rispetto dell’altro provoca una reazione di autodifesa all’interno del mondo arabo e islamico. Un disprezzo profondo viene espresso di fronte alla perdita del senso del soprannaturale avvertito come una decadenza dell’uomo. Il laicismo assolutizzato non è dunque la risposta alla sfida del fondamentalismo. Soltanto un senso religioso ragionevole, in unione profonda con la ragione, può moderare i radicalismi e permettere di trovare un equilibrio nel dialogo delle culture» 15. In passato i cristiani dell’Iraq, come tutti i cristiani orientali, sono stati abili nel dialogo tra le culture. Non c’è motivo di interrompere tale scambio nel tempo della prova. Bisogna inventarlo di nuovo per sopravvivere e far vivere.

Mons. Antoine Audo S.I. apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica”.

La redazioen dell’italoeuropeo lo ha ritrovato e proposto


1 È possibile farsi un’idea delle Chiese in Iraq dalle seguenti statistiche, ricordando che fin dall’inizio del cristianesimo sono presenti le Chiese caldeo-assira e siriaca: caldei cattolici: 425.000; assiri: 50.000; siriaci cattolici: 60.000; siriaci giacobiti: 55.000; armeni ortodossi: 17.000; armeni cattolici: 3.000; latini: 4.000; protestanti: 6.000; greco-ortodossi: 500; greco-cattolici: 350; copti ortodossi: 200; anglicani: 200. 

2 La jizya costituisce una tassa imposta ai non musulmani.

3 Per i cristiani rifugiati nei Paesi limitrofi si danno le seguenti cifre: Siria: 70.000; Giordania: 15.000; Libano: 5.000; Turchia: 3.000.