Convince proprio questa pellicola, sotto la maestria di un Virzì più maturo e impietoso più che mai nella descrizione di un’Italia fin troppo vera, e sempre più nascosta, ormai, sotto falsi miti e tabù.
E’ l’Italia dei giovani laureati che non riescono ad avere neppure mezza possibilità di farsi notare per le loro reali capacità, ma sono, troppo spesso e per troppo tempo, costretti a sballottarsi, qui e là, a caccia del giusto colloquio, per ricevere in cambio solo cordiali no. Alla fine, esausti e disillusi, provano a svendersi in strutture e lavori precari che finiscono col distruggerli psicologicamente e distruggere quel minimo di prospettive e speranze che si erano costruiti durante gli anni di studio. E’ un mondo dove il clientelismo prevale sempre, dove lo studio e la coerenza vengono, solo apparentemente, applauditi, ma, in definitiva messi agli ultimi posti; un mondo dove vince il più furbo e il più forte e non c’è nessuna pietà per chi rimane indietro o non si adegua a regole sempre più vicine all’istinto primitivo della sopravvivenza. E’ un contesto lavorativo dove persino i sindacati arrivano in ritardo e sembrano non aver più strumenti per combattere le ingiustizie singole o collettive.
La storia, apparentemente semplice, sviscera tematiche rilevanti, terreno fertile per dibattiti e discussioni, e porta in primo piano problemi e necessità di una generazione ormai allo sbando, tra cui c’è ancora chi chiede soltanto di avere la possibilità di dimostrare quanto vale. I giovani messi in campo sono diventati quasi automi, paurosi della sconfitta e del licenziamento, interessati solo a pettegolezzi o deliri televisivi sullo stile del grande fratello. Nessuna certezza è data, non c’è spazio per costruirsi un futuro e avere un lavoro stabile; non c’è speranza di istaurare un relazione sentimentale duratura e pure i grandi ideali come la famiglia, l’amicizia sembrano essere andati ormai definitivamente a rotoli. Ma, in mezzo a questo mondo degradato, contaminato da un’assurda smania di successo e potere, e che sembra aver perso la bussola del buon senso e delle regole di convivenza, una speranza c’è. E la protagonista Marta, una ragazza né bella né brutta ma semplicemente normale e brava, che pur cerca di adeguarsi a tale mondo, alla vita che gli si prospetta, ne esce vincente, riuscendo a rimanere una filosofa della vita e a rispettare le sue regole interiori ed etiche, seppur con un briciolo di disillusione. La filosofia la aiuta ma è un segreto che si porta dentro e non può condividere con nessuno, così si ingegna. Riesce persino a diventare brava come telefonista e, per stare al passo con colleghe e mondo circostante, comincia a seguire, anche lei, il grande fratello in tv; ma non resiste, il suo essere filosofico prende il sopravvento, e ci scrive sopra un saggio che verrà pubblicato in America, dove, forse, ha la sua prima vera gratificazione.
Attorno a lei ruotano personaggi calcati ma ben riusciti e verosimili come la sua compagna di casa, ragazza immatura e dissoluta che consuma il suo tempo tra rapporti inconcludenti e incapacità di gestire la sua vita rovinando anche quella della figlia. A lei si aggiungono Daniela, che rappresenta un esempio di escalation positiva, solo apparentemente, ma che poi subisce le inevitabili ripercussioni, e Claudio che concentrandosi sul lavoro e su se stesso cerca di dimenticare le gravi mancanze affettive e la capacità di ricostruirsi una vita o prendersi delle responsabilità. E due colleghi di Marta che, anche se ben inseriti nel contesto, alla fine cedono ai nervi e si autodistruggono.
Nulla da aggiungere sul delirio che guida la politica del lavoro solo ed esclusivamente al profitto aziendale e non tiene conto del materiale umano che sta dietro all’infernale ingranaggio. Così uomini e donne vengono caricati e motivati con tecniche psicologiche estreme e vengono quasi privati di quell’umanità che un tempo le rendeva persone e le faceva comunicare tra loro. Nessun rapporto tra la piccola Lara e sua madre da cui riceve solo vibrazioni telefoniche, tanto che disperata cerca una baby-sitter per farle compagnia. Nulla a che vedere con l’amore che invece lega Marta alla madre in fin di vita, grande maestra di saggezza e umiltà.
In mezzo a tutto questo correre e vociare cacofonico di una Roma irriconoscibile e claustrofobia, Marta riesce a sopravvivere, rimane semplice e corretta nonostante tutto, la sua essenza si adegua tristemente, ma non si piega e denota una forza interiore che come una luce rischiara quella squallida esistenza. Poi, il destino volge le fila della storia verso un piacevole imprevisto, così il lavoro all’improvviso scompare, e Marta è di nuovo libera di ricominciare daccapo. Non ha nessuno attorno a lei capace di darle un esempio davvero positivo, ma una vecchia signora le porge almeno una spalla su cui piangere, ed ecco allora che da una lieve ma intensa speranza fa breccia nel suo cuore. Ciò avviene quando riesce a trasmettere alla piccola Lara pillole di saggezza che le fanno sognare di diventare, anche lei, un giorno, filosofa, proprio come Marta.
Non c’è un finale, ma una finestra aperta, una riflessione a metà, c’è la voglia di riflettere sul degrado raggiunto e finalmente cambiare questa assurda trappola in cui quasi tutti i personaggi cadono. L’epilogo dunque non è dato ma si pone sotto forma di lucida speranza che restituisce a Marta e, in chi in lei si rivede, una dignità e un comune sentire del tutto nuove.