Qualcuno dirà che era ovvio, che era scontato, che era scritto (sgrammaticato), che era nell’aria, che è tipico italiano: una volta a sinistra, quella dopo a destra. Sempre scontenti.
Nessuno li ha votati, eppure hanno vinto. Ma non solo. La vittoria del PdL va oltre qualsiasi previsione, e cancella addirittura sia la sinistra comunista che quella ambientalista da Camera e Senato. I numeri di una disfatta senza precedenti si riflettono nelle lacrime di Bertinotti, che rappresentano il tramonto di un’ideologia bocciata senza riserve dagli italiani, ma sono anche il punto di ripartenza, come egli stesso sottolinea. Diliberto, Pecoraro Scanio e soci invece hanno un alibi perfetto, e puntano il dito contro Veltroni, reo di aver regalato i voti alla destra, raccogliendo l’invito del Cavaliere a non disperderli ai piccoli partiti. Il leader del PD, tuttavia, non è parso turbato dalla rivoluzione, anzi, ha fatto gli auguri di buon lavoro a Berlusconi e ai suoi alleati, ingoiando l’amaro boccone della sconfitta col garbo e l’onestà che lo contraddistingue. Poco importa, se la scenografia del quartier generale fosse pronta per ben altri fasti, i numeri danno comunque modo al leader del Partito Democratico di avviare una solida battaglia parlamentare. Ma tant’è, restano impietosi. Alla Camera, la destra cala un poker d’assi che le assicura 340 seggi, con 272 deputati per il PdL, 60 per la Lega e 8 per l’MPA. L’opposizione si ferma a 211, guadagnandone ulteriori 28 grazie a Italia Dei Valori, de facto l’unico partito capace di incrementare di due volte e mezza il bottino elettorale. Merito delle proposte, dell’immagine pulita del partito e dei suoi rappresentanti, della ferrea volontà di operare per la collettività in modo limpido e chiaro, sostengono l’ex PM e il suo intero entourage. E ne hanno ben donde.
In senato, la musica non cambia, con 116 unità per il PD e 14 per IDV, contro i soverchianti 141 del PdL, i 2 dell’MPA e i 25 della Lega. E il trionfo dei Lumbard è l’altra grande sorpresa delle urne: percentuale doppia rispetto a due anni fa, addirittura il 26% in Veneto. Bossi e Maroni, dunque, non lasciano e raddoppiano, premiati a loro dire dalla coerenza dei loro fini. “È un voto di proposta, non di protesta”, tuona la prima seggiola del partito. Pronto a mettersi al servizio della comunità, come afferma anche Casini, salvo in extremis grazie a una risicata percentuale che garantisce all’UDC un’esile ma relativa sopravvivenza nei palazzi del potere. Tre senatori e trentasei deputati in tutto: un’opposizione che per bocca del leader dello scudo crociato non sarà sfascista, ma di dialogo e severo confronto. Si inizi perciò a guardare alle urgenze della nazione, al Sud oppresso dalle inadempienze e dall’incuria, ai nodi della giustizia e della sicurezza – si mettano le acredini in naftalina e si lasci lavorare il nuovo governo. Fare peggio del precedente sarebbe quasi impossibile; proprio qui sarà utile l’intelligenza politica di Veltroni e Di Pietro, che congiuntamente al clan Berlusconi dovranno promuovere riforme costruttive e avviare il paese verso una nuova, definitiva primavera. È un dovere morale e materiale che l’Italia aspetta da troppo tempo.