Pubblichiamo di seguito l’intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita. Qual è la lettura più utile per i neoeletti al Parlamento e per ogni politico che si voglia avvicinare al mondo della biopolitica?
"Politici, non fermatevi a quanto riportato sui quotidiani o ai pareri di improvvisati esperti", viene da dire, ma andate alle fonti scientifiche dei temi caldi in biopolitica (aborto, eutanasia, droga…). Questo è certamente il primo appello per chi si muove nell’ambito della biopolitica. Ma certamente c’è di più: bisogna anche che i politici si rendano conto che ci sono delle basi da capire e imparare. Utile per questo è la lettura dell’ultimo documento del Consiglio di Bioetica del Presidente degli Stati Uniti, intitolato "Dignità umana e bioetica" (marzo 2008). La sua fondamentale utilità è chiara, e si capisce dalle parole iniziali scritte dal presidente del consiglio, Edmund Pellegrino: "alcuni pensano che la parola dignità umana ha perso il suo significato. Altri invece la vedono come un elemento irriducibile e identificante l’umana natura. (…) Ma ultimamente le questioni fondamentali in etica e in giurisprudenza saranno forgiate su ciò che pensiamo voglia dire "umano" e sul conseguente rispetto che debba essere dovuto alla umana persona".
Un esempio di come sia complesso l’uso di questo termine ce lo dà Adam Schulman – uno degli autori della raccolta di saggi che compone il documento – che ci fa tre esempi che partono dal tentativo di rispondere alla seguente domanda: "Sospendere la cura medica è un diritto di un paziente che non vuole passare anni in condizioni penose per lui/lei o per la famiglia?" C’è chi risponde di sì, dice, perché questa sospensione porta ad una morte rapida che ne preserva la dignità umana; c’è chi risponde di no, nella certezza che lasciar morire sia incompatibile col rispetto dovuto alla dignità di ogni essere umano; c’è anche chi risponde che il rispetto per la dignità e l’autonomia impone di lasciare il soggetto come ultimo tribunale. Si noti, chiede l’autore, che le tre risposte, tutte basate sul concetto di dignità umana, portano a conclusioni diverse, portando a concludere che il concetto di dignità umana sia "malleabile" (pag 6). Prova di questa mancanza di chiarezza è anche il rapporto tra biotecnologie e dignità umana: (pag 7): tutto dipende da cosa s’intende con "dignità umana": chi la intende come legata a certe capacità particolarmente "nobili" dell’umano, considererà le biotecnologie come promotrici della dignità umana; chi la vede come una sostanza etica intrinseca all’uomo invece diffiderà delle biotecnologie che rischiano di legare la dignità alla performance.
Anche nella storia del pensiero umano sono presenti diverse interpretazioni del termine "dignità umana". Per Kant ogni essere umano ha dignità in quanto possiede spirito razionale; ma, sottolinea Schulman, questo sembra escludere dal novero dei possessori di detta dignità gli umani che non hanno capacità razionale. E non considera altri fattori che hanno rilevanza umana quali famiglia, emozioni, lealtà…(pag 11). Anche le dichiarazioni universali dei diritti umani (da Locke fino all’ONU) sottolineano l’importanza della dignità umana, ma non la definiscono (pag 14). Solo la tradizione biblica spiega la radice della dignità umana in una elargizione per tutti gli umani -e solo per loro- da parte del Creatore. Urge allora una scelta di campo, perché bisogna decidere, di fronte alle molteplici interpretazioni, se la dignità umana esiste (cioè se c’è una sostanziale differenza tra un uomo e un animale) e se questa valga per tutti gli uomini e ad ogni condizione (salute, censo, età, livello di coscienza).
Come si capisce, questa scelta di campo è fondamentale per ogni approccio alle decisioni sul destino degli embrioni, sull’eutanasia ecc. E’ rispondere alla domanda del salmista – cita sempre Schulman -: "chi è mai l’uomo perché Tu te ne ricordi?".
Il Documento si dispiega nell’illustrare "come proteggere la dignità umana dalla scienza", il suo rapporto con "l’anima umana" e i rapporti con le neuroscienze; ma il tema si fa caldo quando entra nel tentativo di spiegare in cosa consista per sé la dignità umana. Holmes Rolston, spiega come esista in realtà una dignità umana specifica rispetto al resto della natura: paradossalmente l’attenzione verso una possibile evoluzione dell’uomo mostra come la sua specificità esista proprio perché le altre forme naturali questa attenzione razionale non l’hanno. E spiega che anche di fronte a persone che "hanno perso la loro dignità" noi non possiamo trattarle come se quella dignità non l’avessero, proprio perché la dignità umana è un tratto intrinseco dell’essere umano (pag 129). Rebecca Dresser mostra come la dignità umana sia possesso anche del paziente gravemente malato, e Edmund Pellegrino conclude il saggio ponendosi la domanda fondamentale: "La dignità umana dipende solo dal grado di complessità di un organismo o è un’intrinseca qualità dell’umano?" (pag 514).
Spesso, spiega Pellegrino, diamo la dignità umana come una cosa scontata, di cui ci accorgiamo solo quando è messa in pericolo, quando è sotto aggressione. Ad esempio in caso di "schiavismo, pulizia etnica, Olocausto, Maoismo, Nazismo, Stalinismo". Per questo bisogna partire dall’esperienza umana e dall’esperienza che nasce dall’incontro con altri esseri umani, in quanto in questo modo è meglio percepita l’unicità e la realtà della dignità umana. Mi permetto di far notare che quest’osservazione è importante: proviamo a ricordare quando abbiamo sentito la nostra "dignità umana" quasi venir meno e vedremo due cose: primo, che essa non sparisce mai, neanche nelle condizioni peggiori; che quello che può sparire non è la nostra dignità "in sé", ma il suo riflesso negli occhi degli altri e di riflesso nella nostra coscienza. E qui capiamo altre due cose: che cercare di non vedere la dignità dell’altro è il primo passo per poterlo sfruttare e distruggere; ed è il sistema sicuro per far perdere all’altro la certezza di possederla.
Pellegrino mette in guardia verso il paternalismo medico o l’uso del cosiddetto "best interest" del paziente deciso da "esperti" (per esempio decidere la fine della vita sulla base della qualità di vita del paziente in quanto percepita dal medico), poiché non è detto che il medico interpreti bene la cultura del paziente, il suo livello intrinseco di percezione di qualità di vita; e anzi confonda la "dignità intrinseca" del paziente con la "dignità che gli attribuisce il medico o altri osservatori".
Il Documento verso la fine cita Joseph Ratzinger, in una delle sue geniali definizioni: il futuro Papa spiega che non si comprendono i diritti umani "senza il presupposto che l’uomo in quanto uomo, grazie unicamente alla sua appartenenza alla specie umana, è soggetto di diritti e che il suo essere porta in sé valori e norme che devono essere scoperte ma non inventate". Capiamo allora il centro vitale di cosa è la dignità umana. In fondo, la dignità dell’essere umano consiste nell’essere soggetto dotato di ragione (anche se sul momento la ragione non la può usare, come quando si dorme, si è bambini o si è malati). La Scrittura getterà poi luce sulla reale utilità di questa ragione: riconoscere il proprio Destino dentro un Amore da parte del Creatore, che non ha bisogno di particolari qualità o atti da parte dell’uomo, ma che è destinato a tutti. Come ha spiegato recentemente Benedetto XVI "Dio ama l’embrione così come ama l’adulto".
Perché è dunque importante questo documento?
Perché mostra la confusione sul termine "dignità umana" che è alla base di ogni scelta biopolitica: è sempre maggiore l’influenza sulle scelte pubbliche, da parte di chi pensa che la dignità umana esista solo a certe condizioni; oppure da parte di chi pensa che essa non esista affatto. Queste due posizioni possono portare a decidere in modo discriminatorio, talora sessista o razzista, verso chi si ritiene non avere le "caratteristiche" necessarie (sesso, capacità decisionale, colore della pelle…). Possono portare anche a negare una differenza tra animali e persone, riducendo dunque le leggi a convenzioni, dato che si possono estendere alle scimmie o ai cani e ritirarle, magari, dagli umani non "conformi". Spiega che la dignità umana la comprendiamo "in azione", in particolare quando siamo in condizioni di particolare difficoltà e capiamo che nulla ci può portare via la dignità, neanche la peggiore schiavitù o malattia, rivelandosi dunque come un fattore intrinseco dell’umano.
Dunque, se la dignità umana è un fatto di tutti, e non dipende dallo status o da condizioni esterne, non esistono umani di serie B: né il bambino non nato, né il vecchio con Alzheimer; ed è per questo che non è neanche accettabile la risposta "morte" ad uno stato di malattia che erroneamente viene definito "non dignitoso", perché nessun tipo di morte annulla la dignità umana (ovviamente salvaguardando il rifiuto dell’accanimento terapeutico).
La risposta politica o biopolitica al bisogno dell’uomo nasce da qui: troppe facili scorciatoie (droga, eutanasia, aborto) vengono spacciate per "salvaguardia della dignità umana" da chi usa questa espressione nel senso di legare la dignità alla autodecisione-autonomia e concepire come indegno tutto quello che esuli da questa capacità (il documento avverte: "gli umani posseggono autonomia in ragione della loro dignità; non è vero invece che hanno dignità in quanto posseggono autonomia", pag 534); o da chi concepisce la malattia grave, irreversibile e invalidante come uno stato indegno per l’uomo ("Le vittime dell’Olocausto non hanno perso la loro dignità perché spogliati della loro autonomia, né i bambini o chi ha danni cerebrali" pag 534). Leggere il Documento statunitense aiuta ad andare al fondo dei fondamentali della biopolitica e ad avere un buon criterio per legiferare.