Nell’UE le donne sono una minoranza rispetto ai ricercatori impegnati nel settore pubblico e privato e dell’istruzione superiore. Il Parlamento chiede quindi di promuovere la scienza come settore d’interesse per i due generi, affrontando la questione dell’abbandono della carriera per motivi familiari e incoraggiando la carriera scientifica delle donne. Ricorda che la parità di genere implica una rappresentanza di donne di almeno il 40% nelle posizioni di responsabilità nella ricerca pubblica.
La ricerca rappresenta un settore cruciale per lo sviluppo economico dell’UE che dovrebbe assumere altri 700.000 ricercatori nell’ambito della realizzazione della strategia di Lisbona per la crescita e lo sviluppo. Tuttavia, le ricercatrici rappresentano una minoranza corrispondente, in media, nell’UE, al 35% dei ricercatori impegnati nel settore pubblico e dell’istruzione superiore e soltanto al 18% dei ricercatori occupati nel settore privato. Inoltre, la percentuale di donne che occupano incarichi accademici di massimo livello di rado supera il 20% e le probabilità per gli uomini di ottenere una cattedra o un posto equivalente sono tre volte maggiori rispetto a quelle delle donne.
Approvando con 416 voti favorevoli, 75 contrari e 164 astensioni la relazione di Britta THOMSEN (PSE, DK), il Parlamento porta all’attenzione degli Stati membri il fatto che i sistemi di istruzione europei continuano ad «alimentare stereotipi di genere», in particolare in settori di ricerca come le scienze naturali. Ritiene quindi di massima importanza promuovere «quanto prima possibile» la scienza come settore di interesse per i due sessi e incoraggia le università e le facoltà ad analizzare i loro sistemi di selezione per individuare eventuali discriminazioni di genere e procedere alle necessarie correzioni.
Dovrebbe inoltre essere incoraggiata una maggiore partecipazione delle donne in settori come le tecnologie, la fisica, l’ingegneria, l’informatica e altri campi e dovrebbero essere adottate politiche efficaci per eliminare il divario retributivo basato sul genere. Nel corso del dibattito in Aula, la relatrice ha infatti sottolineato che «la tematica delle donne e della scienza è connessa agli obiettivi della Strategia di Lisbona» e che «sono necessarie azioni positive per migliorare velocemente la situazione».
Frenare l’abbandono della carriera per motivi familiari
Il Parlamento rileva che una percentuale eccessivamente elevata di donne abbandona la carriera scientifica nel corso degli anni. Tale fenomeno dovrebbe essere analizzato e le autorità competenti dovrebbero proporre soluzioni tenendo conto di differenti fattori, come l’ambiente di lavoro, gli stereotipi professionali, la concorrenza, i requisiti di mobilità e le responsabilità familiari. Riconoscendo che la mobilità è un fattore fondamentale per lo sviluppo e la crescita personale nel settore della ricerca, sottolinea la difficoltà di conciliarvi la vita familiare e la necessità di politiche adeguate in questo campo. Il Parlamento deplora poi che le interruzioni dell’attività scientifica femminile legate a motivi familiari abbiano ricadute negative sulle opportunità di carriera delle donne, «dal momento che la maggior parte dei loro colleghi maschi non sono costretti a sospendere la loro attività e quindi raggiungono posizioni di livello simile in età più giovane», trovandosi avvantaggiati nelle future prospettive di carriera.
Occorre quindi garantire orari di lavoro flessibili, migliori strutture per l’assistenza all’infanzia, nonché l’accessibilità delle prestazioni previdenziali a livello transnazionale. I deputati poi sostengono che i congedi parentali dovrebbero consentire davvero a uomini e donne la libertà di scelta e sottolineano che conciliare la vita familiare con l’attività lavorativa è una responsabilità che riguarda entrambi i generi.
Il Parlamento invita inoltre a considerare l’età come un criterio di eccellenza insieme alla situazione familiare, compreso il numero di persone a carico del ricercatore. I limiti di età per l’assegnazione di borse di studio, infatti, si ripercuotono negativamente sui giovani che si prendono cura di persone a carico e che, nella maggior parte dei casi, sono donne. In tali circostanze, dovrebbero essere introdotte misure legislative che correggano tale anomalia, ad esempio aggiungendo un anno alla scadenza prevista per le domande per ogni anno di cura di una persona a carico.
Quote rose non obbligatorie nei gruppi di esperti
Uno dei settori prioritari dell’azione dell’UE, nel quadro della tabella di marcia per la parità tra donne e uomini 2006-2010, è costituito dalla pari rappresentanza nel processo decisionale, con un obiettivo del 25% di donne in posizioni di responsabilità nel settore della ricerca pubblica, da raggiungere entro il 2010. Il Parlamento, tuttavia, critica tale obiettivo poco ambizioso e insufficiente, ricordando alla Commissione e agli Stati membri che «la parità di genere implica una rappresentanza femminile pari ad almeno il 40%». Invita quindi la Commissione e gli Stati membri a adottare procedure di selezione più trasparenti e a prevedere l’obbligo di garantire un equilibrio di genere nelle commissioni di valutazione e selezione nonché in tutte le altre commissioni e nei gruppi di esperti nominati attraverso quote non obbligatorie di almeno un 40% di donne e un 40% di uomini. A ciò poi dovrebbe accompagnarsi un cambiamento di mentalità nel campo della ricerca per migliorare l’equilibrio di genere a livello decisionale.
Nonostante le donne rappresentino più del 50% degli studenti dell’UE e conseguano il 43% dei diplomi di dottorato di ricerca, ricoprono, in media, soltanto il 15% degli incarichi accademici di alto livello e godono pertanto di un’influenza considerevolmente più limitata in termini di posizioni decisionali nel settore della ricerca. I deputati suggeriscono quindi agli Stati membri di promuovere iniziative di sensibilizzazione per informare e incoraggiare le ragazze a frequentare studi e corsi di laurea in campo scientifico e tecnologico e a stanziare fondi di ricerca mirati per le donne, contrastando il sottofinanziamento delle attività di ricerca svolte da queste ultime.
Il Parlamento incoraggia poi le università, gli istituti di ricerca e le imprese private a adottare e attuare strategie di parità all’interno delle loro organizzazioni nonché a condurre valutazioni d’impatto di genere nell’ambito dei processi decisionali. La Commissione e gli Stati membri dovrebbero adottare misure positive al fine di incoraggiare le ricercatrici e sviluppare programmi di sostegno nell’orientamento alla carriera e tutoraggio, nonché politiche di promozione con obiettivi precisi. Le reti di ricercatrici a livello nazionale, regionale ed europeo, dovrebbero essere rafforzate in quanto strumento fondamentale per spingere un maggior numero di donne ad intraprendere la carriera scientifica e incoraggiare le attuali ricercatrici a partecipare al dibattito politico e a migliorare la loro crescita professionale.
Background
Il documento della Commissione intitolato “She figures 2006” raccoglie una serie di dati e statistiche sulla partecipazione delle donne come laureate, ricercatrici, staff accademico e membri dei comitati scientifici. Esso mostra che le donne rimangono una minoranza tra i ricercatori in UE (il 29% nel 2003), ma il loro numero nel settore della ricerca è aumentato del 4% (quello degli uomini del 2,4%). Questo trend positivo, tuttavia, secondo la Commissione, non deve far dimenticare che le donne rimangono sottorappresentate, soprattutto nelle posizioni dirigenziali.
In Italia, la proporzione di donne sul totale delle persone che hanno ottenuto un dottorato nel 2003 è pari al 51%, ossia superiore alla media europea del 43%. Le donne scienziate ed ingegneri sono l’1,2% del totale della forza lavoro. Tale dato è più basso della media europea (1,4%). La partecipazione femminile nelle attività di ricerca, nel 2003, è stata pari alla media europea del 29%. La proporzione di donne negli staff accademici, invece, è al di sotto della media europea ed è pari al 31,2% e nei comitati scientifici è agli ultimi posti della graduatoria dei paesi dell’UE. Il 13%, infatti, è parte di comitati scientifici contro il 48% di Norvegia e il 47% di Finlandia e Svezia.