Uno dei primi provvedimenti presi dal nuovo governo è la norma anti-infrazioni sul sistema radiotelevisivo italiano. L’Italia ha ricevuto numerosi moniti dall’Unione Europea, condanne dalla Corte di Giustizia, e sanzioni per l’irregolarità della legge Gasparri in merito alla gestione del sistema radiotelevisivo. Non sono mancate le critiche da parte dell’opposizione, che ritiene la faccenda una querelle vergognosa, accusando la maggioranza di voler continuare a mantenere Rete 4 in via analogica, violando così le normative europee. Ma la legge Gasparri è l’ultimo gradino di un percorso lungo e travagliato, in cui entrambi gli schieramenti sono stati protagonisti.Eccone un breve excursus. Sin dai primi anni ottanta, dopo la legge 103/1975 e la sentenza 202/1976, che autorizzavano le emittenti locali a trasmettere via cavo e via etere, erano presenti alcune reti capaci di coprire già l’intero territorio. Questo grazie al cosiddetto meccanismo di syndacation interconnessione funzionale, che tramite videocassette diffondeva in tutte le stazioni di trasmissione lo stesso programma in contemporanea. Al tempo, Rete 4 era di proprietà della Mondadori, ma prima del fallimento venne rilevata da Silvio Berlusconi, in pacchetto unico con Italia 1 (allora di Rusconi). A seguito della denuncia presentata dal titolare di Rete Capri, nel 1984 i tribunali di Pescara, Roma e Torino dichiararono ufficialmente illegale la situazione, in quanto regime di concorrenza sleale: tre sole reti, infatti, accentravano l’80% degli introiti pubblicitari di tutte le emittenti private, e disposero il sequestro degli studi.Per salvare Rete 4intervenne allora il presidente del Consiglio Bettino Craxi, che minacciando la crisi di governo riuscì, dopo due tentativi, a far approvare la legge 10, nel 1985, la cosiddetta “salvaBerlusconi”. Nel 1988, però, la Corte di Cassazione tornò alla carica, e con la sentenza numero 456 richiamò il legislatore a creare una legge in grado di riequilibrare il monopolio di Mediaset. Il provvedimento Mammì di due anni dopo, pur apportando modifiche in positivo, non risolse il problema. Detta legge si limitava, testé, a fotografare la situazione esistente, ponendo un limite di concentrazione del 25% o di tre reti su nove frequenze nazionali, con precedenza a chi già le occupava; di fatto, legittimando la concorrenza sleale. Nel 1994 la Corte Costituzionale, sent.422, emise un nuovo richiamo denunciando la situazione irrispettosa del pluralismo ancora persistente. La legge 249 /1997 proposta dal ministro Maccanico, sancì alfine che nessuna emittente privata poteva detenere oltre il 20% o più di due canali delle frequenze in analogico. Mediaset possedeva (allora come adesso) tre canali, da qui l’esigenza per Rete 4 di migrare in satellite. La decisione giunse dopo un travagliato iter di rimandi fra il legislatore e la Corte Costituzionale, ma il riscontro non fu altrettanto fedele. La legge poneva in essere dei limiti per l’attuazione: la detta Rete 4 e Telepiù Nero (altro canale “eccedente”) sarebbero passati sul satellite nel momento in cui la tecnologia nazionale avesse raggiunto un congruo sviluppo. La 66/2001 poi, sancì il definitivo switch off al digitale entro cinque anni dal decreto, congelando a tutti gli effetti la legge Maccanico. Nel 2002 La Corte Costituzionale ribadì nuovamente la gravità della situazione, sollecitando provvedimenti adeguati entro il 30 dicembre 2003. Nonostante il rifiuto di approvazione da parte di Carlo Azeglio Ciampi della prima formulazione, venne approvata la legge 112 del 2004. Il testo di quest’ultima varia sostanzialmente le basi di calcolo, e riprendendo la legge del 2001, stabilisce il tetto massimo del 20% dei programmi calcolati non più sulle frequenze analogiche, ma anche su quelli digitali e satellitari; blocca l’assegnazione delle frequenze analogiche in attesa della transazione completa al digitale. Le frequenze di Rete 4, assegnate nel 1999 a Centro Europa Sette, facente capo all’imprenditore Francesco Di Stefano, lo costringevano a ridimensionare l’azienda a causa dell’inattività. Il caso, arrivato sul tavolo della Corte Europea, ha dato ragione a Di Stefano, condannando lo Stato italiano a un cospicuo risarcimento. Ma il caso è ancora irrisolto, e il dibattito attuale in parlamento sul nuovo decreto legge incarna le contraddizioni trentennali del sistema radiotelevisivo pubblico.