Dopo quasi un anno finisce nella diocesi di Novara una delle querelle che hanno fatto parlare e discutere molti che si sono appassionati al nuovo tema ecclesiale: latino si o latino no?
Già perché come spesso capita nel nostro bel paese, dove la comunicazione diventa la verità, mentre spesso è solo un odore di ciò che succede, i tre preti ribelli e ultra conservatori sono stati rimossi perché , malgrado un anno di mediazione, hanno continuato nel loro intento, contro il proprio Vescovo, contro una concessione (il Motu Proprio) un po’ diversa, contro una Chiesa che – per ora – è ancora legata allo spirito del Vaticano II.
Con ordine i fatti. Da quando le celebrazioni in latino erano state introdotte con il ‘Motu proprio’ di papa Benedetto XVI, i 3 preti e soprattutto parroci (particolare importante per leggere questa vicenda) hanno sempre celebrato in latino scatenando la reazione della Curia che li ha richiamati più volte. Ora mons. Renato Corti ha rimosso i parroci di S.Maria Maggiore, Alberto Secci, di Crevoladossola, Stefano Coggiola, e Nibbiola, Marco Pizzocchi.In sintesi il papa concede ad ogni sacerdote, in particolari circostanze, di celebrare la S. Messa utilizzando il Messale promulgato dal papa Giovanni XXIII nel 1962 contenente il rito romano tradizionale risalente al Concilio di Trento. Una precisazione va dunque fatta: non si tratta semplicemente di una Messa in latino. Questo rito è diverso in molte parti dalla celebrazione della Messa così come la viviamo oggi secondo la riforma liturgica di Paolo VI.Ma perché allora complicare la vita con un decreto che sembra fatto apposta per i non pochi nostalgici nella Chiesa? Il papa vuole richiamarci alla serietà che la celebrazione Eucaristica richiede. Non si tratta solo del latino dunque, ma un rito che innanzitutto va celebrato nel pieno rispetto della sua sacralità. Probabilmente tempi e modi non sono stati strategicamente opportuni.La Chiesa non torna indietro. La scelta della riforma liturgica è innanzitutto pastorale, per rendere la S. Messa più vicina alla dimensione comunionale della comunità cristiana delle origini, dove l’Eucaristia è anche alimento per la vita dei fedeli. Ciò non toglie che la possibilità, in alcune circostanze, di celebrare la Messa usando il Messale del 1962, con un’adeguata catechesi per i fedeli e una necessaria preparazione del sacerdote celebrante, possa far toccare con mano a tutti la ricchezza della liturgia della Chiesa che attraverso i secoli giunge fino a noi. Dunque non due riti distinti, ma due modalità celebrative dello stesso Rito Romano. Il messale edito da Paolo VI resta la forma “ordinaria” della liturgia della Chiesa, mentre il messale promulgato da Giovanni XXIII è considerato come la forma “straordinaria”.Ma al di là delle questioni rubricali (che sono meritevoli di nota, ma non è il nostro mestiere), senza cadere anche noi nella trappola dei tifosi, come se il problema fosse una questione di gradimento, di piacere o di ricordi che tornano a galla, credo che alla fine di questa vicenda che ha fatto soffrire non poco una diocesi e, per presa diretta, anche del suo Vescovo Corti, che ha fatto di tutto, passando anche per incompetente dai parrocchiani, dai politici e dai preti, pur di non arrivare a dove si è arrivati, ci sono altre riflessioni che devono essere messe in atto.Di recente il noto giornale britannico TELEGRAPH ha pubblicato un articolo che riguarda la quaestio, il cui titolo risulta quanto mai provocatorio, LATIN MASS SILLINESS, cioè "La stupidità della messa in Latino". Ancora una volta gli inglesi non hanno capito molto della vastità e complessità di quello che sta succedendo. Non è solo una operazione nostalgica che in molti campi sociali sta facendo nuovi adepti e soprattutto molto rumore. Quello che c’è in ballo non è la lingua da usare, i paramenti da mettere o se un determinato gesto è più sacro di un altro; se Dio gradisce di più il gregoriano o il pop, il cappellino dei preti dei centri estivi o il tricorno. Quello che traspare chiaramente è una pastorale che fa’ fatica a decollare, ad entrare nella vita della gente, a parlare e vivere i mutamenti della società senza perdere la propria radice evangelica. C’è un problema di identità e di posizione che sono cambiate radicalmente e che pur di non perdere un proprio prestigio si ricerca l’odience migliore. C’è la fatica e la frustrazione di non essere più i primi della classe, quelli riconosciuti al di la delle parole ma solo per una tonaca addosso. C’è la fatica di una comunicazione che scappa, corre e quando la credi conosciuta lei è già altrove. E’ decisamente stupido chi riversa contro la Chiesa ormai ogni tipo di colpa, basandosi sulle troppe opinioni da bar che imperversano giornali e libri, ma è decisamente poco ecclesiale il chiudere gli occhi di fronte a questo mondo e alle sue fatiche, dove la verità del vangelo, una guida sicura della Chiesa da sempre, deve fare i conti con le tante troppe verità degli uomini di oggi che di sicuro hanno ben poco.In un tempo come questo dove la Chiesa sta litigando con i libri, tra quelli da rispolverare depositati in sacrestia quarant’anni fa e le nuove versioni dei lezionari, più attenti alla filologia che al resto, forse l’impegno non è quello di verificare se si sa ancora leggere un oremus in un latino decente, ma quello di riprendere in mano testi e spirito dell’enorme lavoro del Vaticano II, anch’essi vecchi di quarant’anni, ma probabilmente ancora intonsi perché poco consultati e soprattutto messi in atto.Anch’io domenica ero a Messa, una celebrata in italiano lo ammetto, e proprio in quei testi tradotti e quindi ben chiari nel loro contenuto ricordo di aver sentito “misericordia io voglio e non sacrificio” e, con un’espressione che era cara a Gesù “chi ha orecchi per intendere, intenda.”