Molti statisti(ci) e numerologi del crimine sostengono da anni che l’estate sconvolga la mente dell’uomo non soltanto dal punto di vista anaerobico, del caldo opprimente che ottunde le facoltà intellettive e la ragione.
C’è di più, e pure di peggio. La violenza privata, quella familiare, subdola perché insospettabile, che scatta nell’istante imprevedibile che nega la vita un tempo donata; c’è quella imponderabile dei suicidi e degli incidenti, quella abominevole dei pirati della strada e degli eccidi rituali, quella che sfoga la sua furia sui bimbi o gli indifesi. Marek Edelman diceva sempre che “non si sa mai a cosa ci si deve abituare”, dopo aver vissuto l’esperienza dello sterminio dei ghetti ebrei a Varsavia, ed esserne uscito in modo rocambolesco, aggrappato agli umori di una libertà violata. L’abitudine all’omicidio alberga negli esseri umani dalla notte dei tempi, quando l’istinto prevaleva sui sentimenti, ma nessuno aveva coniato il termine civiltà. Ad oggi, è una pretesa ottenere la pace per vie sociali, persino legali: è la disperazione che porta a non arruolarsi nelle sue legioni. E sull’animo in tempesta scoppiano inchieste, ma nessuna progredisce: esploso lo scandalo, tutto si ferma. Siamo carne da telegiornale. Le geometrie del disastro hanno un solo motore, ossia l’individualismo della razza più dannosa al pianeta. Non abbiamo una cura a questo male, sopraffarci è una metastasi che medici, filosofi, sociologi e prelati riescono di rado a spiegare con teorie discordi. Quel “mai più” che recitano in coro tanti assetati di buonismo, è ormai un ingranaggio dello spettacolo. La tivù pretende la prima linea,e da una comoda trincea ci mostra ciò di cui non ci vergogniamo, senza risparmiare la dignità della morte: attentati, cadaveri, sbullonamenti, splatter movies, salme e cataclismi. In una cosa, però, non può sostituirci, nella presenza. Siamo necessari e indispensabili, a differenza di ogni obiettivo, circuito, telecamera. Alcuni anni fa venne filmato il decesso di un atleta sul campo di calcio. Si era accasciato sul cuore, chiedendo la sostituzione non tanto per sé, bensì per la squadra. In un gesto estremo aveva spiegato che il verbo del vivere va coniugato soltanto al plurale.