EUROPA- politica e energia

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Ma davvero la politica europea per l’energia e i cambiamenti climatici mette a rischio la competitività italiana?

Questa settimana vorrei fare qualche considerazione sul dibattito che si è aperto tra Italia e UE sulla politica europea in materia di energia e cambiamenti climatici.

In estrema sintesi, il governo Italiano, anche sulla spinta di Confindustria, ritiene alcuni degli obbiettivi su cui l’UE ha preso impegni all’unanimità al Consiglio di Berlino nel marzo 2007 eccessivamente onerosi e forse poco realistici, almeno per quanto riguarda la struttura produttiva Italiana già messa in difficoltà dalla crisi finanziaria e da seri rischi di recessione.

In particolare, il sistema delle aste a pagamento dei diritti di emettere gas ad effetto serra che l’UE vorrebbe estendere alla maggior parte dei grandi impianti fonti di emissione è considerata troppo costosa per l’Italia (anche in relazione al minor costo per altri Stati membri) e possibile fonte di delocalizzazioni e aumento del prezzo dell’energia. Difficilmente raggiungibile è anche considerato l’obbiettivo di ridurre del 13% le emissioni del 2005 entro il 2020 e di produrre il 17% di energia da fonti rinnovabili entro la stessa data.

I media hanno ampiamente riportato il dibattito con punti di vista molto diversi. Alcuni autorevoli editorialisti sono addirittura arrivati a parlare di nuova ideologia o religione verde dominante a cui nessuno ha il coraggio di opporsi; come se il legittimo timore che i comportamenti umani possano alterare – anche in modo irreversibile – i fragili equilibri dell’ecosistema fosse una specie di partito preso irrazionale e senza alcun fondamento scientifico.

Premetto che, salvo il rispetto degli accordi già assunti da Governi precedenti, per tutte le questioni aperte ogni Governo ha il diritto dovere di negoziare al meglio in sede europea quello che ritiene sia più conveniente per il proprio paese.

Mi è però sembrato che in molte delle posizioni emerse mancasse una visione più fiduciosa del futuro e delle potenzialità del sistema produttivo italiano visto nel suo insieme. Ad esempio, è probabilmente vero che gli obbiettivi europei considerati sulla base delle tecnologie attuali possono sembrare estremamente ardui. Ma il presupposto della politica europea è proprio quello di scommettere su un fortissimo rilancio della ricerca e dell’innovazione nel settore delle rinnovabili, dell’efficienza energetica e dello smaltimento o stoccaggio del CO2. Secondo molti ricercatori nel giro di pochi anni alcune fonti pulite potrebbero (anche considerando la crescente scarsità del petrolio) diventare economicamente competitive con quelle tradizionali. Considerati i rischi, non solo economici, che corriamo con la nostra attuale dipendenza energetica, mi sembra che all’Italia possa convenire forse più che ad altri puntare con decisione su fonti alternative.

La crescita occupazionale e lo sviluppo di nuovi business legati alle politiche "verdi" sono, secondo molti analisti, uno degli elementi di potenziale maggior dinamismo dell’economia europea e, forse, anche la strada per rilanciare crescita e sviluppo in un momento così difficile. Basti pensare che nell’ultimo anno gli impianti fotovoltaici nel nostro paese sono triplicati e molte imprese italiane stanno producendo importanti innovazioni nel settore delle rinnovabili cominciando a recuperare parte dei ritardi accumulati rispetto ai principali concorrenti europei.

Certo, queste politiche hanno un costo e servono aiuti di Stato e incentivi che la Commissione sta incoraggiando. Ma è meglio continuare a versare miliardi di euro nelle casse di qualche Stato non sempre amico (alimentando i temuti fondi sovrani …) o modello di democrazia e diritti umani o, iniettarli in un sistema dove ne possono beneficiare migliaia di imprese italiane che già si stanno adattando alla nuova economia basata sulla sostenibilità ambientale?

Oltre a fondi nazionali e comunitari previsti nelle politiche regionali (di cui in Italia già oltre il 13% sono usati per queste politiche) e i programmi europei di ricerca e innovazione (tra cui Intelligent Energy), anche buona parte dei soldi che si ricaveranno dalle aste per i diritti di emissione dovrebbero andare a finanziare queste politiche; restando dunque nel PIL italiano. Non credo che sia una logica perversa, statalista o burocratica quella di far pagare un costo aggiuntivo a chi produce creando diseconomie (ossia costi collettivi come sono le emissioni) e incentivare chi invece sviluppa processi produttivi più sostenibili.

Resta il problema della competitività europea rispetto agli altri mercati che forse non accetteranno i vincoli e i relativi costi a cui l’Europa si sta unilateralmente impegnando. La politica europea su questo punto è ancora in buona parte da definire, anche se appare evidente che nessuno vuole lasciare le imprese europee, a cominciare dagli energivori, in balia del c.d. dumping ambientale. Se l’anno prossimo a Copenaghen apparirà chiaro che alcuni paesi "grandi inquinatori" non intendono assumersi le loro responsabilità in modo credibile, l”UE dovrà tenerne conto sia riguardo ai propri impegni unilaterali che per la sua futura politica commerciale.

Va comunque sottolineato che fissare gli standard ambientali per il primo mercato al mondo significa comunque condizionare in buona parte gli standard produttivi dei nostri concorrenti acquistando un vantaggio competitivo su di loro. Chi può permettersi di produrre una macchina che non puo’ essere venduta o utilizzata nel mercato europeo?

Questo ragionamento forse spiega anche il perché quasi tutti i governi europei – a cominciare da quello tedesco che ha un sistema produttivo non troppo diverso dal nostro – concordano sul fatto che la politica di lotta ai cambiamenti climatici può diventare una delle principali fonti di nuovi posti di lavoro – specie per le PMI. Al di la della guerra delle cifre sui costi effettivi, che dipendono molto anche da quanto costerà in futuro il petrolio e dalla nostra capacità di innovazione, quasi tutti considerano la sfida ambientale una grande occasione per rilanciare la competitività europea conquistando un primato che abbiamo perso in molti altri settori. Innovare nelle tecnologie verdi vuol dire vendere ad altri prodotti sostenibili e poter fissare standard ambientali a cui gli altri saranno costretti ad adattarsi.

La Commissione europea, sostenuta all’unanimità del Consiglio europeo e dal Parlamento, ha sostanzialmente proposto una rivoluzione epocale nel modo di produrre e di consumare. E’ una rivoluzione anche culturale che rappresenta soprattutto una grande scommessa sul futuro e, non è certamente priva di incognite. Rinunciare a cercare di vincere con convinzione questa scommessa, come in passato si è rinunciato ad investire di più sulla ricerca e a razionalizzare e modernizzare parte del il sistema educativo, vuol dire forse accettare di pagare in futuro costi – non solo ambientali – ancora più alti.

Del resto anche l’opinione pubblica non considera affatto il problema dei cambiamenti climatici come qualcosa che si possa rinviare o non prendere estremamente sul serio. L’Eurobarometro pubblicato nel settembre 2008 indica che il 62% degli europei pensa che sia il problema più grave del pianeta ed è convinta che Governi e industria non stanno facendo abbastanza. E’ interessante notare che il 56 % ritiene che la lotta ai cambiamenti climatici può avere un effetto positivo sull’economia europea.

I cittadini europei, anche dopo la crisi in Georgia, sono dunque sempre più consapevoli della necessità di dotarsi di una politica energetica e di lotta ai cambiamenti climatici comune e chiedono maggiore impegno e capacità di parlare con una voce unica. Dal successo nell’attuazione di queste politiche su cui è stato preso un preciso impegno all’unanimità e, dalla capacità di perseguire l’interesse generale di tutti i cittadini e degli operatori economici, dipende buona parte della nostra credibilità nel dimostrare il valore aggiunto di un’azione comune europea davanti alle grandi sfide del nostro tempo.

Carlo Corazza
Direttore della Rappresentanza a Milano