Se guardiamo più in profondità ciò che accade nel mondo dell’arte, scopriamo quanto la sua dimensione espressiva, interpretativa e quella più palesemente mediale e comunicativa stiano per transitare verso un’altra dimensione: quella più tematica.
La tematizzazione è uno dei temi caldi della discussione intorno allo spazio dell’evento e della sua significazione. E’ il significato che si tematizza nella domanda che manifesta Altri. Il farsi tema del Soggetto che va verso Altri sembra uno scivolare dentro la vecchia palude del significato; il vecchio e prosperoso significato da cui tanto, negli anni settanta, si voleva prendere la distanza. Il ritorno al significato non è la perdita del grande significante che lo sovrasta, semmai è il suo giusto ritorno alla gloria dell’evento. Qui si deve intendere che il significato non è più ciò che detta la forma al contenuto, ma è il contenuto stesso, in quanto espressione di una volontà che si fa tema tematizzando il mondo, più che il suo farsi forma. Non più la monade di Leibniz come unità di coscienza o singolarità spirituale che nella modernità incarnava la realtà ultima dell’universo gravitazionale, ma, al suo posto, da una parte la storia come soggetto emblematico e dall’altra il pianeta stesso che viaggia insieme ad altri pianeti in uno spazio intergalattico. Sono loro i temi e i nuovi soggetti di una trama intensa, molteplice, fitta di significati.
Il significante cioè non è più la sostanza materiale o il medium che sempre detta il tema, che da sempre impone la forma, ma è l’essere per Altri che mi obbliga; ovvero è l’entità stessa della natura dell’universo come “res”, cioè il suo stesso contenuto a tematizzarsi e a porsi come soggetto. Non è la forma del contenuto che viene dal significante ma è la significazione stessa a farsi tema come relazione con Altri o forse, come direbbe Paul Ricoeur, è la metafora stessa a diventare non più il segno ma l’oggetto, il vivente organico della rappresentazione.
Per l’arte attuale, i temi caldi non sono solo il significante e l’intreccio fra arte e vita che attraverso l’opera si mostrano, ma sono le stesse cose della realtà vivente. Cose ed oggetti non appartengono più allo stesso universo della rappresentazione simbolica. Essi, in quanto categorie concettuali che, semmai, hanno a che fare con un’ontologia e non più solo con le questioni dell’interpretazione, non coincidono più. Possiamo affermare, con un qualche smarrimento, che ciò che si espone nell’opera sono le cose. Non le materie, i materiali, i significanti, gli oggetti, non le tracce delle cose, i segni o i simboli ormai scaduti a simulacri, ma le cose stesse in quanto contenuti che, come carne e pelle del mondo, si espongono. Le cose si manifestano nella risposta ad una domanda rispetto alla quale hanno senso. La domanda cerca un sostantivo ed un aggettivo inseparabili ma ciò non implica l’assoluta adesione della cosa con l’oggetto, se non nei termini di un’analogia secondo fini in generale.
A questo punto bisognerebbe ripartire dalla famosa questione che solleva Arthur C. Danto. Quale è, quindi, la differenza di censo fra le mere cose, qualsiasi cose, i meri oggetti e le opere d’arte? Dobbiamo forse dire che dopo la Pop Art ed i Brillo Box si è consumato un delitto come sembra dire Baudrillard? O ancora, parafrasando Jean Clair; il nuovo non esiste poiché esso è soltanto un riconoscere ciò che è stato, una questione di memoria e la vera modernità non è quella proclamata dalle avanguardie e dalla corsa all’innovazione ma quella che, appunto, ricorda, rifà la storia, riprende la pittura, ne ricostruisce il corpo e i suoi aspetti figurali?
Domande forse sospette e che non possono essere lasciate così, senza che non ci s’interroghi ulteriormente sulle questioni poste. Le cose non stanno proprio così come i nostri due moralizzatori dell’arte, Arthur Danto e Jean Clair, in maniera del tutto differente e da punti di vista, almeno in maniera apparente, diametralmente opposti, ci vogliono sapientemente dire. Senza qui richiamarci ad Heidegger, il quale aveva già affrontato la questione nel suo saggio ormai noto -e, direi incautamente, piuttosto spesso citato da tutti quelli che sentono l’inderogabile bisogno di affrontare la relazione fra arte e Filosofia- “L’origine dell’opera d’arte”, tentiamo di comprendere se possiamo intenderci quando parliamo di cose e di che propriamente si tratta. Intanto, già riferirsi alle cose sarebbe come nominarle. Le cose non sono semplici oggetti o un qualunque oggetto, oggetti-cose che già presupporrebbero una visibilità, un toccare, un vedere, insomma una tangenza con il corpo. Gli oggetti esigono di essere visti, le cose, invece, no. La cosa deve essere colta, compresa, presa, afferrata, prima che essere vista.
Si ha una qualche ragione nel sostenere che le cose ci appaiono indefinite in quanto non si mostrano direttamente ma pretendono uno sforzo della ragione, un passaggio, una mediazione fra il limite della ragione e lo sconfinamento dell’immaginazione. Già quando guardiamo una montagna, un bosco, un oceano, un deserto, se ancora esiste questa romantica possibilità, non è proprio la montagna, il bosco, l’oceano, il deserto che vediamo ma i loro significati, i loro nomi, la cultura che ce li ha fatti conoscere, osservare, guardare, come giustamente ricorda Remo Bodei nel suo recente pamphlet “Paesaggi del sublime”. Cosa ne sappiamo veramente se non, appunto, che essi continuano ad essere parole, discorsi al posto delle cose? Forse bisognerebbe levare le parole dalle cose, sospendere il loro intreccio semantico ma avremmo così ancora delle cose?
Cose e oggetti non sono parole interscambiabili fra di loro, che hanno a che fare con una denotazione sicura sia sul piano della referenza che della semantica, e non appartengono allo stesso universo concettuale. Le cose sono neutre, indefinite, per riconoscerle non basta toccarle, vederle odorarle con i sensi ma bisogna sostare in una zona d’ombra dove non tutto ciò che appare è; bisogna pensarle, varcare un confine, sentire l’origine, ciò che ci accomuna e che fa vibrare le corde di tutti i nostri sensi. Non è così per gli oggetti che fanno parte delle nostre dinamiche vitali, funzionali, utilitaristiche ed estetiche. Sebbene per Kant il concetto d’una cosa come fine della natura in sé non sia proprio un concetto costitutivo dell’intelletto o della ragione ma possa essere un concetto regolativo per il giudizio riflettente, non di meno è anche vero che non si possa escludere che il medesimo concetto permetta una riflessione sugli stessi principi per i quali il mondo si manifesta essendo ciò che è.
Nella raccolta di poesie dal titolo “Antologia di Spoon River”, del poeta americano Edgar Lee Masters, nell’edizione tradotta da Cesare Pavese, vi è una poesia,”Dippold l’ottico”; dove un uomo con problemi alla vista misura una serie di occhiali. Egli vede inizialmente persone, colori ed oggetti reali. Dippold propone occhiali sempre più raffinati ed efficaci fino a quando il paziente non supera la soglia di ciò che distingue le cose dagli oggetti reali, così i suoi occhi riescono a cogliere universi, abissi d’aria, luce che avvolge le cose. Benissimo, conclude l’ottico, faremo gli occhiali così. Le lenti che per Dippold sono quelle giuste non servono per vedere oggetti, persone, figure ma percezioni, mondi, odori, sostanze di cui le cose, come materie organiche, parti di realtà, situazioni, avvenimenti, sono fatte. Le lenti che bisogna mettere sono congrue a chi se ne deve servire solo in quanto non fanno osservare un dato oggetto ma fanno sentire e conoscere le cose e di quale carne le medesime sono ricoperte. La semplice vista non può cogliere le cose che sono, appunto, cose in quanto materie assolute, irriducibili allo strumento, al medium.
Le cose, sembra dirci la poesia di Masters, non possono essere usate, non hanno una qualche utilità se non nel regno dell’assunzione di responsabilità di ciò che accade o ciò che da sempre è. L’accadere, come sappiamo, è ciò che fa essere le cose nell’evento, nella manifestazione di ciò che deve essere. L’accadere è il fatto stesso delle cose. Le cose sono le materie prime dell’operare dell’arte proprio perché esse sono ciò che già da subito sono. In questo senso per l’arte contemporanea, o arte del nostro tempo, non si tratta più di una rappresentazione simbolica che coincide con il mostrare l’opera ma di un dovere, attraverso l’opera, rendere plausibile ciò che è non plausibile. Trarre l’energia vitale e le nuove possibilità espressive dallo stesso paradigma della storia che finalmente ha chiuso con i suoi legami stringenti e coatti di una promessa di eternità che il mito dell’arte e la stessa estetica del bello hanno elargito a più riprese. Ora ci si muove balbettando, incespicando, in un mondo finito ma non per questo possibile d’infinito nel donare mondi infiniti, a volte con la paura di dovere fare i conti con qualcosa di ancora più grande di cui non si conosce tuttora il senso e la misura.
In questo senso possiamo richiamarci alla categoria del sublime come dimensione, smisurata, senza pari, che impegna tutte le nostre risorse interiori e morali non perché siamo davanti a forze imprevedibili suscitate dalla natura medesima nello scontro e nella dialettica fra ragione ed immaginazione di kantiana memoria, ma per il doversi misurare con ciò che ora appare difficile, imponderabile, straordinariamente mostruoso nel suo essere, appunto, portentoso. Le nuove dialettiche che riaccendono i sensi dell’arte sono fra le cose del reale, fra storia e contingenza, sviluppo compatibile, e salvaguardia del pianeta, solidarietà ed emancipazione, ecosistemi e risorse. Le cose sono quindi le cose ben altro dall’immaginazione stessa che le produce. Sono le cose stesse del reale che fanno, appunto, pensare ad un modus operandi differente, intermediale etico ed ecologico al contempo.
La differenza fra una semplice cosa ed una cosa dell’arte consiste giustappunto nel suo differente statuto di cosa. Una mera cosa è come un oggetto che, per così dire, è già fuori dalla zona d’ombra; esso è, poiché immediatamente registrabile; lo si percepisce, lo si nomina mentre la cosa, seppure sia un materiale grezzo, indistinto, è anche un corpo vivente, un soggetto che significa ed elargisce a più riprese registri di significazione in una specie di scontro-incontro con la storia, con la natura stessa. In quanto corpo, non si separa mai dal suo poter essere linguaggio in potenza. Esso è sempre, in qualche misura, potere includente od escludente nel processo rimemorativo della visione. Qui la vista coglie non solo la parte oggettuale di questo processo nel suo registro di riconoscimento ma anche il suo contenuto memoriale, indistinto ma vero. Ora il suo intreccio con il linguaggio che lo nomina fa pensare, interroga, solleva universi e mondi.
Non si tratta di tornare ad una rappresentazione favolistica di un immaginario che vuol farci vedere ciò di cui non sappiamo ancora, il che ci mette davanti all’imperscrutabile o all’assoluto, ma di un affrontare un nuovo universo di senso o di un far risorgere, come direbbe Jean Luc Nancy, il senso dalle piccole cose. La stessa esperienza di questo fare appare quasi sovrumana, difficile proprio perché non esistono più le stesse sicure parole e gli stessi mezzi espressivi con i quali poter dire, trovare i segni, rappresentare, in una situazione dove occorre misurarsi con lo smisurato che viene dalle cose, da ciò che abbiamo chiamato i temi caldi del mondo.
Ciò che conta non è una specie di renovatio, un’ontologia di un saper fare, come sostiene Jean Clair, ma di un saper riconoscere ciò che si fa tema dell’arte e che si tematizza dall’esperienza ed oltre ad essa pur nella distanza invalicabile che ci separa dalle cose. Saper cogliere le cose non vuol dire rifare un discorso sull’arte ma, al contrario, vuol dire andare verso un’agire etico che chiede ed esige impegno e profondità per la vastità degli universi tematici trattati. Si tratta di una responsabilità impegnativa e costitutiva dell’arte e dei suoi linguaggi espressivi, dalla pittura alla video arte, da questa alla performance.
E’ di questo che ha bisogno l’arte contemporanea?
Il problema di una dimensione etica dell’arte alla fine della modernità ridiventa il tema dell’origine, la cosa stessa dell’arte. Ciò non vuol dire tornare ad una pittura che ha nella figurazione il suo scopo finale ma vuol dire proprio riappropriarsi di alcune modalità della modernità in un progetto che sappia mettere insieme le materie di un nuovo dire tra realtà e visione, necessità e possibilità e, parimenti, che sappia far venire fuori, nella mancanza, ancora una volta, il Mondo, ciò che serve all’uomo e che lo accomuna nella sua interezza agli altri esseri viventi. Questa riappropriazione è anche una questione di linguaggio, stile che non può perdere il senso di ciò che la modernità e le avanguardie ci hanno lasciato, non tanto da un punto di vista delle idee ma quanto dal punto di vista delle soluzioni espressive, formali, scritturali, ancora oggi aperte, insomma di cose che viaggiano ancora intorno alle stesse procedure del fare dell’arte moderna.
L’opera d’arte come microcosmo, e con essa anche quel che rimane della pittura, non è certo esausta, incomprensibile, agonizzante per colpa di quel mescolamento fra arte e vita che è stato al centro delle dinamiche artistiche del novecento ma essa ancora è al nucleo di una possibilità aperta proprio perché esiste la distanza per riguardare con le lenti di Dippold la storia, la natura stessa delle cose. Di quelle cose che stanno primariamente come condizione morale dentro di noi e che sono anche sopra e sotto di noi, il cielo stellato, le galassie, il cosmo e che val la pena di affrontare, guardare, contemplare proprio in quanto non sappiamo se noi e loro abbiamo, in un remoto futuro che comunque ci riguarda, una qualche possibilità di continuare ad esserci fra gli sterminati ed infiniti mondi dell’avventura planetaria.
Photo: Roni Horn – Vatnasafn – Libriry of Water – Wonder Water
- Leggi anche:
www.artapartofculture.org