Intervista al traduttore Massimo Caviglione

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La traduzione è sempre esperienza di un abisso, tanto più rilevante quanto più lo è l’opera da tradurre.di Erika Dagnino 


 È sempre il rinnovarsi di una scommessa pascaliana: ogni volta il traduttore deve riprovare una sorta di esperienza dello scacco (tale da far pensare che, dal punto di vista ideale, collocandosi sul piano di una supposta utopia, non dovrebbe essere tradotta nessuna opera). Lo scacco viene vissuto come distanza finitamente infinita dal testo stesso, finitamente nel senso che l’opera in sé conclusa ha limiti precisi nel suo aspetto tecnico, una struttura o non struttura rilevabile, infinita nel senso di inesauribile e sempre comunque incolmabile.  

Si può parlare di scommessa vinta? 

La scommessa è pascaliana, proprio perché comporta una sorta di “atto di fede”, una presa di posizione comunque cosciente che ti chiama a rispondere di fronte all’atto stesso rivendicato come intimamente personale. Il traduttore, operato nel migliore dei modi il suo lavoro, si arroga il diritto di aver vinto la scommessa, di aver reso nel modo più consono il testo, lo scrittore quello di sentirsi sempre e comunque tradito, al limite snaturato. Ma è la natura stessa della traduzione a richiedere questo, poste l’essenziale ambiguità del testo scritto e l’arbitrarietà del linguaggio. Si potrebbe parlare di vertiginosa prossimità dell’opera tradotta all’originale. 

Quindi appartiene alla natura stessa del tradurre, mettere di fronte alla distinzione tra “capire” e “comprendere”… 

L’etimologia delle due parole sembra a prima vista analoga, ma in comprendere mi sembra più accentuato il senso di contenere nell’accezione di portare dentro, di fare proprio. Credo che il traduttore al di là della semplice decifrazione della lingua originale (il capire propriamente detto il semplice significante) debba proprio fare questo: assimilare e ricreare il significato di quanto si trova davanti, assumendosene il rischio. 

Fino a che punto si può auspicare una letteralità o una traduzione letterale nel nome di una fedeltà al testo originario? 

La fedeltà assoluta è una pura utopia, la letteralità assilla il cattivo traduttore. Il testo va ricostruito e integrato, quindi riprodotto in una continua oscillazione fra conformità e distanza, precisione e ricreazione. La traduzione sembrerebbe appartenere al dominio del “magico” facendo appello incessantemente alla facoltà dell’intuizione intellettiva, ma la mediazione della razionalità è sostanziale. E’ una facoltà creativa: impossibile limitarla al puro campo delle emozioni, come ridurla a un’utopica ratio onnicomprensiva.  

All’interno del processo di ricostruzione la parola va considerata nella sua potenzialità sia di senso che di suono… 

 La ricostruzione è sempre una ri-costruzione, una edificazione di nuove parole e di nuovi suoni. Possibilmente, se, come ripeto si parla di un buon traduttore, non di nuovo senso (lasciando tutto lo spazio immaginabile all’ambiguità semantica). Il problema fonetico si pone, a parte gli ovvi casi di elusione di fastidiosi bisticci verbali, soltanto nel caso di traduzioni di poesia o di opere in prosa molto specifiche come certi poemi. Altro è il discorso sul ritmo la cui resa è essenziale al di là della tipologia del testo e tenendo conto della differenza dei segni di interpunzione nelle varie lingue.  

Quindi i concetti chiave sembrano essere scommessa, rischio, fedeltà e infedeltà, magia e razionalità, personalità e immedesimazione: atti e condizioni generanti il processo continuo della possibilità di senso fino alla scelta conclusa/inconclusa. Una tecnica creativa, quindi, e una creatività configurata tecnicamente: la Traduzione ci sembra oscillare fra queste due, non antitetiche ma complementari, polarità.