Vorrei portare a conoscenza di un fatto che la maggior parte dei lettori de L’Italoeuropeo certamente non sa.
La TV-Espansione di Como ha recentemente mandato in onda una trasmissione sulla morte di Mussolini. Il parroco di Giulino di Mezzegra, don Luigi Barindelli, ha detto che il 29 aprile del 1945 un fotografo di Azzano (Vincifori) ha immortalato il muretto del cancello di villa Belmonte, quello davanti al quale, il giorno prima, sarebbero stati fucilati, dal colonnello Valerio (W. Audisio), il Duce e Claretta Petacci (W. Audisio. In nome del popolo italiano. Edizioni Teti, 1975). Nella foto si vedevano i fori provocati dai proiettili di mitra sulla struttura di pietra. Con le lastre il fotografo ha stampato delle cartoline, contrassegnando i fori fatti dalle pallottole con dei cerchietti bianchi. Il muretto di quel cancello è alto 126 cm. Mussolini era alto 1.66 cm., mentre la sua cortigiana preferita non superava il metro e 58 cm. d’altezza (entrambi sono stati colpiti al petto. Le munizioni, fuoriuscite dai corpi, avrebbero dovuto passare sopra la recinzione in muratura). A Giulino (cancello di villa Belmonte) il colonnello Valerio ha sparato sul muretto di cinta per simulare una falsa fucilazione.
Lo storico Franco Bandini ha affermato che gli abitanti di Giulino, il 29 aprile, sono accorsi al muretto con strumenti appuntiti per appropriarsi del piombo rimasto intrappolato tra le pietre della costruzione muraria (Le ultime 95 ore di Mussolini. Mondadori, 1968). Sempre il Bandini ha raccolto una testimonianza in cui si specificava che il sangue davanti al cancello di villa Belmonte era poco e di colore scuro (il gemizio ematico proveniente da un cadavere è insignificante). Sul luogo della fucilazione presunta, chi ha visto lo stivale destro del Duce ha notato che la cerniera lampo posteriore era completamente divelta (R. Salvadori. Nemesi dal 23 al 28 aprile ’45. Documenti e testimonianze sulle ultime ore di Mussolini. B. Gnocchi Editore, Milano, 1945). Con una calzatura in quelle condizioni Mussolini non poteva di certo camminare. Al fatidico cancello vi è stato trasportato di peso. L’Audisio, per giustificare la spedita deambulazione mussoliniana, ha affermato che lo stivale era semplicemente “sdrucito” (W. Audisio. op. cit.). Un partigiano, Orfeo Landini, ha detto che il cadavere del capo del fascismo disteso sul selciato davanti a villa Belmonte era già in preda al rigor mortis (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C. D. L. Edizioni, 1998).
Il pomeriggio del 29 aprile, all’Obitorio milanese di via Ponzio, i corpi della coppia celebre erano in uno stato di avanzato rilasciamento muscolare (collo, tronco e arti superiori). Un reperto tanatologico incompatibile con l’ora canonica dell’avvenuta fucilazione (16,20 del 28 aprile, cancello di villa Belmonte, Giulino di Mezzegra) (A. Alessiani. Il teorema del verbale 7241. www.larchivio.org. Reperibile per via telematica; G. Minoli. Mixer: Indagare Mussolini. RAI-due, 1992). In precedenza un tale di Como, Luca Martinelli, ha segnalato che Lia De Maria, la padrona di casa dove erano stati tenuti prigionieri i due preziosi ostaggi (notte tra il 27 ed il 28 aprile del 1945), ha sudato sette camice per pulire il sangue dal pavimento dell’ingresso della sua abitazione. La rimozione delle tracce ematiche, e quindi la dimostrazione che il Duce è morto in quel cascinale, è descritta anche sul libro del giornalista-scrittore Franco Bartolini intitolato Lario nascosto (Editoriale, 2006). Don Barindelli, in televisione, ha precisato che il fotografo del muretto ha potuto fotografare la camera dove avevano pernottato il Duce e Claretta solo quattro giorni dopo l’avvenuta fucilazione. Cosa c’era da sistemare o da non far vedere? Durante la trasmissione mandata in onda da TV-Espansione, un telespettatore, intervenuto telefonicamente, ha detto che un boscaiolo ha visto ammazzare la Petacci nei dintorni di casa Mazzola, un’abitazione poco distante dal cascinale dei contadini De Maria. Viene così confermata la versione rilasciata da Dorina Mazzola a Giorgio Pisanò che la pubblicò sul suo libro dal titolo: Gli ultimi cinque secondi di Mussolini (Il Saggiatore, 2004).
Sugli avvenimenti di Dongo il colonnello Valerio non solo ha detto molte stupidaggini, ma ne ha fatte altrettante, tra cui anche quella di sparare su di un muro senza calcolarne l’altezza. L’unico “pregio” che possiamo riconoscere all’Audisio è stato quello di accollarsi la responsabilità di un omicidio, quello di Claretta, che ha pesato molto sull’opinione pubblica in quanto l’unica colpa che aveva la giovane donna era quella di essere stata l’amante di Mussolini. Il comunista Armano Cossutta ha infatti detto di aver saputo da Luigi Longo, numero due del PCI “che non c’era intenzione di fucilare la Petacci, anche se, a dire la verità , il popolo italiano la odiava perché era stata l’amante del Duce” (AA. VV. Pisanò sulla fine del Duce: falsità. Corriere della Sera, 24 Gennaio, 1996). L’Italia di allora non considerava molto le donne, ma forse proprio per questo non le ammazzava così brutalmente.
Al giornalista Silvio Bertoldi il deputato del PCI W. Audisio ha detto: “Se mi venisse la voglia scriverei io cinque capitoletti sui fatti che mi hanno visto protagonista. Si raggiungerebbe una tiratura, ma una tiratura…altro che Grand’Hotel” (I misteri d’Italia. Rizzoli, 2008). In precedenza il colonnello Valerio, ad un suo collega parlamentare, aveva asserito: “Ma tu credi proprio che io sia un assassino?” (F. Bernini. W. Audisio, il giustiziere di Dongo. Gianni Iuculano Editore, 2004). Il 29 aprile del 1945 la segretaria di Luigi Longo, Francesca De Tomasi, si accingeva a redigere il verbale che avrebbe dovuto riassumere i fatti di Dongo. L’Audisio dettava leggendo dei foglietti gialli che gli aveva passato Aldo Lampredi (alias Guido), il suo mallevadore inviato sull’alto lago di Como con il compito di supervisore-controllore. Al temine della dettatura il Lampredi ha apostrofato il Valerio in questo modo: “D’ora in poi la parte dell’eroe la sostieni tu”. Con la segretaria il Guido è stato ancor più perentorio: “Questa è la versione che dev’essere consegnata alla storia”. La De Tomasi ha poi precisato: “Dalle parole scambiate in quel momento fra Valerio e Guido capii subito che la versione ufficiale che stavo scrivendo a macchina, era già stata precedentemente concordata tra loro e che i fatti si erano svolti in realtà in maniera diversa”. L’Onorevole socialista Alcide Malagugini affermò alla Costituente: “…che l’atto di giustizia compiuto dal colonnello Valerio o da chi per lui è stato l’atto di chi si è fatto giudice e giustiziere di tutto il popolo italiano” (U. Lazzaro. Dongo. Mezzo secolo di vergogne. Mondadori, 1997).
Purtroppo quella battuta a macchina dalla De Tomasi è la falsa ed anacronistica versione dei luttuosi fatti di Dongo che i ragazzi liceali studiano ancora oggi sui libri di scuola. Nonostante avesse detto: “Sì, io, il ragionier Walter Audisio, sono colui che ha fucilato Mussolini” (intervista al giornalista John Pasetti concessa il 3 marzo del 1947), lo stesso Valerio nelle sue diverse e contrastanti ricostruzioni dei fatti è incappato in errori madornali: ha scambiato le strade in discesa per quelle i salita, ha visto crescere l’erba sull’asfalto, ha posizionato panchine di pietra dove non ci sono mai state, ha moltiplicato a suo piacimento i colpi di mitra per due, ha detto che la sua macchina stava a monte quando invece era a valle, ha definito di legno delle scale che erano di pietra, ha descritto senza finestre una camera che al contrario ne aveva una grande, ha fatto sparare un mitra ancora pieno di grasso, si è fatto accompagnare nella sua missione da partigiani che non si sono mai mossi da Dongo ed ha definito casa De Maria una piccola casetta incastonata tra i monti nonostante fosse un caseggiato di tre piani visibile a centinaia di metri di distanza. Complessivamente, le imprecisioni e le vere e proprie falsità contenute nella versione comunista sostenuta dall’Audisio sono ventidue: le ha verificate e smascherate, una per una, Alessandro Zanella, autore del libro L’ora di Dongo (Rusconi, 1993). Non solo l’Audisio ha spudoratamente mentito. Anche i suoi compari non sono stati da meno. Per il colonnello il Duce davanti al suo mitra era tremante ed aveva la bava alla bocca. Per Guido era all’opposto eroico e determinato (avrebbe detto: “sparatemi al cuore”). Per Michele Moretti (Pietro, il terzo giustiziere del PCI) il Duce era per contro romantico e risorgimentale (avrebbe gridato: “Viva l’Italia”). Come si vede ci sono menzogne per tutti i gusti.
Il dogmatismo, la necessità di semplificare la realtà, il bisogno di sicurezza e di verità (elementi peraltro comuni anche al totalitarismo fascista e a quello nazista) spiegano perché individui come l’Audisio poterono “mascherarsi” da rivoluzionari (anche se in buona fede, con sincerità) e sembrare ciò che assolutamente non erano. Sullo sfondo dei processi e delle epurazioni in Russia, il clima della “vigilanza rivoluzionaria”, la continua e nevrotica paura del tradimento e della deviazione ideologica caratterizzava allora la vita dei comunisti italiani. Si tratta del disperato tentativo di razionalizzare l’assurdità e di darle una spiegazione. La “mascherata” del potere e delle persone per bene, con il crisma della religione, la disperazione della coscienza critica, con il crisma dell’amore, e il fallimento del rivoluzionario dogmatico, con il crisma dell’omicidio, chiudono in perfetta geometria il succo della vita di Walter Audisio. Parlando di lui, l’ex segretario di Palmiro Togliatti, Massimo Caprara, ha detto: “L’Audisio era un impiegato del cappellificio Borsalino di Alessandria. Era uno adatto più a misurare le teste che non a tagliarle” (M. Caprara. Quando le botteghe erano oscure. Il Saggiatore, 1997). Il colonnello si è però ampiamente “riscattato” quando ha fucilato i Gerarchi fascisti prigionieri a Dongo (in fuga verso la Valtellina formavano la colonna Mussolini).
Tra loro c’era anche un innocente capitano d’aviazione, Pietro Calistri, un pilota da caccia scambiato erroneamente per quello del Duce (era controllore Guida-Caccia alla postazione radar della Luftwaffe di Senago-Milano). Arrestato dai partigiani perché faceva parte della colonna Mussolini in ripiegamento verso il Nord aveva una sola colpa: quella di aver chiesto un passaggio per tornare a casa sua in Friuli. L’Audisio fa ammazzare anche lui in quanto il numero complessivo dei “fucilandi” (ipse dixit) doveva essere pari a quello dei patrioti antifascisti giustiziati a piazzale Loreto poco meno di un anno prima (10 agosto del 1944). Per il colonnello Valerio il concetto di giustizia, che deve prevedere il vaglio delle responsabilità, era solo una questione numerica. Abituato a destreggiarsi tra i libri paga ed i conteggi aziendali ha applicato i suoi metodi aritmetici anche nei confronti della morte. Prima di morire il pluridecorato Calistri tenta un’ultima protesta. Grida: “Lo volete capire che io non c’entro? Sono un soldato. Sono qui per errore”. “Torna immediatamente al tuo posto”, gli urla l’Audisio. L’altro ubbidisce. Morirà fumando una sigaretta. La madre del Calistri ha appreso la terrificante notizia che il figlio era stato fucilato alla schiena sul lungo lago di Dongo mentre accudiva i suoi due nipotini, entrambi di età inferiore a cinque anni.
Uno che era stato insignito con la Medaglia d’Oro al valor militare, Francesco Maria Barracu (sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri della RSI) voleva essere trafitto al petto. Brutalmente il Valerio gli ha detto: “Alla schiena sia fucilato. Alla schiena come gli altri. Ho avuto questo ordine e così sarà fatto”. Siccome il Barracu è stato fermo, l’Audisio con uno strattone lo ha rigirato brutalmente. Un partigiano del plotone d’esecuzione ha affermato: “Valerio, un attimo prima dei colpi, intervenne ordinando di sparare in basso e di risparmiare le teste. Capiremo dopo il perché. Bisognava che la gente potesse riconoscere i gerarchi quando sarebbero stati esposti a piazzale Loreto”. Ringraziandoli per il lavoro svolto, il generale Raffaele Cadorna, comandante del milanese CVL, ha consegnato a ciascuno dei componenti del gruppo che ha sparato ai Gerarchi fascisti un premio-compenso di 10.000 lire.
Dopo i Gerarchi (solo a pochi un tribunale avrebbe inflitto la pena di morte) tocca a Marcello Petacci, il fratello di Claretta catturato per il fatto di aver dichiarato di essere un diplomatico spagnolo. Da una finestra dell’albergo “Dongo”, il maggiore dei suoi figli, Benvenuto, ha visto morire il padre perché la madre, Zita Ritossa, non ha fatto in tempo a strapparlo di là. La mente del giovane non ha retto. Trascorrerà l’esistenza in un ricovero psichiatrico. Come ha scoperto il giornalista e scrittore Silvio Bertoldi (op. cit.): “A spese dello Stato perché considerato un invalido civile di guerra”. Dopo il fatti luttuosi di Dongo, il Valerio ha intrapreso la sua carriera parlamentare. Ha scritto Fabrizio Bernini (op. cit.): “I dolori venivano all’ora di pranzo quando Valerio lasciava andare in trattoria i suoi giovani ed affamati aiutanti con il pretesto di non aver appetito. Al termine del pranzo però, quando gli altri uscivano dal locale, un po’ di appetito al colonnello pare che gli sopravvenisse improvvisamente, costringendolo a farsi una minestra in brodo, solo quella e da solo, per non pagare il conto anche per gli altri”.
Ugo Zatterin ci racconta com’era il deputato comunista W. Audisio: “Una vera delusione…La fama che lo precede lo aveva preconizzato come un vero matador delle mischie parlamentari; invece egli si dimostrò fin dal principio un elemento d’ordine, uno svelto giustiziere interno del gruppo comunista e quando Giancarlo Pajetta si avventò contro l’on. Piazza per una questione di donne oltraggiate verbalmente, furono si gli ex corazzieri in funzione di commessi a far da muro intorno al malcapitato democristiano, ma provvide personalmente il rag. Audisio ad agguantare il compagno Pajetta per la collottola, come si suol fare con i gattini capricciosi e coi condannati a morte, riportandolo di peso al suo banco. <Appendilo a piazzale Loreto>, gli gridò il democristiano Cappugi…che da tempo faceva l’irrequieto e che si era aggiudicato la contro invettiva comunista di onorevole camomilla” (U. Zatterin. Al Viminale con il morto. Baldini Castoldi Dalai, 1997).
Vi è una professionalità dell’estremismo, e del sangue, che ha per costante l’ansia di uccidere e per accessorio causale l’ideologia cui applicarla. Quando il colonnello Valerio è morto (11 ottobre del 1973), il partito comunista ha celebrato i suoi funerali in sordina. Si voleva far dimenticare l’epoca in cui il PCI uccideva, oltre ai tiranni, anche i preti, le donne ed i bambini (G. P. Pansa. La grande bugia. Sperling & Kupfer, 2006; I figli dell’aquila. Idem, 2002; Il sangue dei vinti. Idem, 2009). Quel periodo ha avuto l’ambizione d’essere rivoluzionario. Ma della rivoluzione ha spartito soli i connotati deteriori: la ferocia e la vendetta.
In un libro recentissimo intitolato “I profeti disarmati” (Corbaccio, 2008), l’autrice, Mirella Serri, mette in luce un aspetto poco o per nulla conosciuto di chi dice di aver ammazzato Mussolini “in nome del popolo italiano”. Messa alla prova, la fede comunista del futuro colonnello Valerio, testimoniata da cinque anni di confino a Ponza scontati nella colonia penale in compagnia di personaggi del calibro di Mauro Scoccimarro ed Umberto Terracini, vacilla inaspettatamente. L’Unità afferma che l’Audisio è rientrato ad Alessandria (sua città natale) nel giugno del 1939 perché i termini del domicilio coatto erano scaduti. In realtà al ragioniere comunista del cappellificio Borsalino viene restituita la dignità sociale e lo stipendio per un atto di clemenza mussoliniana. La Serri mostra un prezioso documento di Pubblica Sicurezza, datato 16 marzo del 1939, che ci illumina sui reali motivi che hanno favorito il reinserimento in società del futuro partigiano incaricato dal CLNAI milanese di “eseguire alte opere di giustizia”. “Segnatamente tra i comunisti più convinti della Colonia, l’Audisio dimostra seri propositi di redenzione”, recita il verbale della Polizia. “Egli ha dichiarato che, una volta ottenuta l’invocata licenza, inoltrerebbe ad Alessandria una domanda di grazia, facendo abiura dei principi politici finora professati”.
In data 10 luglio del 1939, la Legione dei Carabinieri di Alessandria ha inviato la seguente comunicazione al distretto militare della città piemontese: “Il sottotenente di complemento Audisio Walter, per atto di clemenza del Duce, è stato dimesso dalla colonia di confino di Ponza, prendendo domicilio in via Lungo Tanaro 25 Casa Ceva”. Quando la sera del 27 aprile del 1945 Luigi Longo e Sandro Pertini hanno proposto a valorosi ed integerrimi comandanti partigiani dell’Oltrepò pavese di andare sul lago di Como per esecutare brutalmente il Duce e i Gerarchi fascisti catturati insieme a lui, tutti i garibaldini interpellati (Luchino Dal Verme, Italo Pietra ed Alberto Mario Cavallotti) si sono rifiutati (A. Zanella. op. cit.). Quello che non ha detto di no è stato, invece, l’Audisio. Non vedeva l’ora di “saldare i conti” con chi, anni prima, lo aveva graziato, facendogli riacquistare la sospirata libertà. Poiché occorre essere consapevoli del proprio limite e della propria miseria, bisogna tener presente, soprattutto nell’ambito morale, che è ancor più difficile ringraziare per il bene che uno ha ricevuto che perdonare il male di cui si è stati ingiustamente vittima.