Su Omar Al-Bashir, presidente del Sudan, pende un mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale. E’ la prima volta che un presidente in carica viene incriminato dalla Corte, che contesta crimini di guerra e contro l’umanità. Un’eredità pesantissima, senza esclusione di colpi fra uccisioni e soprusi, trasferimento forzato di civili, torture, stupri, e ancora attacchi intenzionali contro la popolazione, saccheggio sistematico. L’accusa più pesante è il massacro perpetrato in Darfur, un bilancio d’orrore che conta trecentomila morti e due milioni di sfollati fra le tribù Fur, Masalit e Zagawa. Tutto, col pretesto di sedare una rivolta. Il leader ha puntato il dito contro Stati Uniti ed Europa, rei di falsare la realtà e di muovere finti passi a favore del Continente Nero, ma sinora l’unico capo d’imputazione caduto contro il dittatore è il genocidio. Secondo la Corte, infatti, il materiale messo a disposizione del procuratore Luis Moreno Ocampo non contiene gli elementi necessari per sostenere l’accusa vessatoria verso le tribù. Il mandato d’arresto è comunque stato emesso, subito eseguibile, ma nello stupore generale migliaia di persone, a Khartoum, sono scese in piazza per contestare il provvedimento. Dalla capitale stessa, il vice Ministro della Giustizia ha ribadito che il Sudan non consegnerà nessuno al Tribunale dell’Aja. Cresce così il rischio di rappresaglie contro i dipendenti dell’Onu e i caschi blu che operano nel paese africano; si calcola che siano presenti sul territorio circa trentaduemila persone tra staff locale e stranieri. Moltissimi gli italiani, trecento nella sola Khartoum.
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