L’Orchestra Della Speranza

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È un cielo tiepido quello che veste i primi approcci di primavera.

Dai parabrezza ai finestroni degli ospedali, dai lucernari agli occhi di plastica dei treni, le ombre del futuro scorrono uguali fra i rami e i riquadri verdi dei campi, nello sguardo di mille pendolari, studenti, turisti, fuggiaschi, stranieri. Fra le nebbie di Romagna e gli ulivi a cascata del Ponente, la beata inconsuetudine marchigiana e gli agrumi di Sicilia, gli spigoli trentini e le spiagge di Calabria c’è spazio per melanconia e pentimento, scoperte e stupore. Molti antenati, negli anni del terrore, sono stati contenti d’avere vissuto; noi, tra internet e viaggi low cost, cellulari e nuovi mostri, abbiamo smarrito la rotta verso l’azione. Alcuni eroi hanno onorato il proprio destino unendolo a quello altrui, senza fermarlo nel traffico, nel calpestìo, appiccicato a un appuntamento tutto d’un fiato. Gli altri, nella fretta, hanno seminato su un terreno sterile l’embrione che fa di sé la sostanza di un principio. Pietra, marmo, plastica, materie in cui la natura fatica ad affondare le radici. La vita vi ronza attorno e piega altrove, come nelle metropoli d’affari, dove l’urgenza degli interessi non lascia spazi all’incanto, e serve andare e venire e cercare e lasciare alle festività il piacere del dono. Che se invade, se esige, non va bene. Presto o tardi finisce in un angolo, riciclato, anche se si tratta della vita stessa. Il panorama traslucido di vetrate, calcoli e business ha un potere ipnotico capace di annullare ogni sensazione. L’abete sacrificale abbattuto sulle alpi viene riempito di adobbi e venduto per dare allegria ai piccoli, un gesubambino di legno e un tubetto di cioccolatini vanno alla grande in feste comandate, e i negozi traboccano di armi giocattolo, chincaglierie e merci esangui.

L’eclissi si protrae da qualche decennio, foraggiata da depressioni e sfide catodiche, disattenzioni e superficialità. A Milano nessuno vede più la “scirossa” e i giardini storici, la quiete secolare dei vicoli in cui si cade per cibo e per nebbia; a Torino l’élite ha mollato la presa, e il gorgo dei rancori ha preso il sopravvento sui fasti dell’opera gentile; Roma splende di ardori innestati, pregi perduti per mano altrui, che scontano la pena lontano dalle responsabilità; Napoli fatica a tornare padrona, fra la retorica e l’indolenza di chi detiene il potere. Firenze è il teatro delle ripicche, (s)valutato in Borsa e in battaglie politiche di bassa lega, che allunga i tentacoli su Venezia, Palermo, Bari e l’antica Lanterna di Genova. Basterebbe una pausa più fisica, più pratica. Tornare alle percezioni semplici, a quei rituali sepolti nel passato e che fanno spesso gridare – fuori luogo – alla perdita di tempo: finché c’è coscienza, nulla si dimentica. Fermiamoci a guardare un fiore che sboccia, un’ape alle prese col suo fascino; proviamo a sorriderci e a tenerci per mano indicando il mittente, anche quando ci sembra banale, scontato. È un atto di deliberata armonia che può cambiare volto al più tetro dei paesaggi, e che ripete all’Italia no, non siamo ancora perduti.