La lotta americana al terrorismo. Background storico

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Nell’esposizione del suo piano per contrastare la rovinosa situazione che ormai domina in Afghanistan, Obama denuncia e condanna ripetutamente le stragi sanguinose e i crimini di cui si sono macchiati i componenti dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, stabilmente radicata tra il Pakistan e l’Afghanistan.

“Al Qaeda e gli estremisti alleati costituiscono un cancro che rischia di uccidere il Pakistan dall’interno”, ha tuonato il presidente americano.

Gli Stati Uniti lavorano instancabilmente per cercare una cura a questa difficile malattia che produce effetti destabilizzanti nell’area medio orientale. Ma il medico, in questo caso, è lo stesso responsabile della cagionevole salute di questi territori.

L’Afghanistan è stato teatro di scontro fra le due grandi superpotenze che hanno dominato la scacchiera internazionale durante gli anni della guerra fredda. Con la fine degli anni 70, il partito democratico del popolo afgano, che aveva provocato la caduta del governo di Mohammed Daud, si era diviso in due fazioni, che ben presto diedero vita ad una vera e propria guerra civile. La fazione di Amin riuscì a  prevalere. Ma il programma di radicali riforme agricole e la campagna contro manifestazioni della religione musulmana, condussero ad una esasperata reazione popolare. Fu proprio in questo momento che i sovietici decisero di intervenire. Dopo aver stroncato le forze militari afgane, l’armata rossa depose il leader Amin, e insediò al potere il leader della fazione antagonista, Kamal. Nell’ottica della guerra fredda, l’URSS puntava al rafforzamento della sua influenza nella regione, a scapito delle posizioni americane. Ma gli Usa furono capaci di erodere i successi della superpotenza rivale attraverso una sapiente strategia che univa le diverse potenze medio orientali contro il nemico comune. Le forze musulmane, provenienti dall’Iran, dal Pakistan e da varie organizzazioni religiose che si erano andate a creare in quegli anni (prima fra tutte la fratellanza musulmana) si unirono ai mujaheddin afgani nella lotta contro il nemico sovietico. Degno di nota fu anche l’intervento cinese nella drammatica vicenda. Dopo i falliti tentativi del colosso sovietico di satellizzare la Cina, così come aveva magistralmente fatto con i vari paesi dell’Europa orientale, la seconda grande potenza comunista si era rafforzata economicamente e politicamente; in più alle controversie di sapore ideologico, che caratterizzarono i difficili rapporti di Mao Tse-Tung e Nikita Krusciov, si aggiunsero i tentativi della Cina di subentrare all’URSS come leader del movimento comunista internazionale.

Infine essenziale fu la partecipazione dell’ Arabia Saudita. Come scrive Sergio Romano, in Con gli occhi dell’Islam, “Nella grande coalizione antisovietica gli Stati Uniti e la Cina fornirono armi e il Pakistan e l’Iran assicurarono logistica, ma l’Arabia Saudita fu il tesoriere della spedizione, il paese che nutriva la fede con i petrodollari e finanziava le scuole che avrebbero formato il fanatismo musulmano degli anni successivi”.L’Arabia Saudita stava cercando di uscire da una grande crisi, provocata da contestatori wahhabiti, che condannavano il governo dei Saud, troppo permissivo e poco rispettoso dei precetti coranici. La guerra in Afghanistan, in nome della fede musulmana, poteva dare una nuova immagine al regime saudita.

Fu proprio la casa regnante dei Saud ad inviare in Afghanistan Osama Bin Laden. Quest’ultimo avrebbe contribuito nell’organizzazione e nel coordinamento delle operazioni militari contro il nemico sovietico, con il sostegno e l’appoggio della CIA. Molti di quegli uomini che avevano collaborato con Bin Laden alla causa afgana, avrebbero successivamente costituito il primo nucleo di Al Qaeda.

Da qui la storia la conosciamo. Bin Laden inizia ad intessere rapporti con al-Zawahiri, uno dei maggiori esponenti della fratellanza musulmana. Con la liberazione dell’Afghanistan dall’invasore sovietico, Al Qaeda si organizza, cresce e pianifica la jihad. Nel 1996, dichiara guerra agli Stati Uniti: da qui si susseguono diversi attentati in diverse parti del mondo, in un climax ascendente di paura e violenza, fino a giungere al fatidico 11 settembre 2001. E sappiamo anche come la Washington repubblicana ha reagito: un ritorno alla retorica degli anni ottanta e novanta accompagnata dalla proclamazione dell’asse del male (Iran, Iraq, Corea del Nord) e dalla condanna ai rogue states. In più la dottrina Bush, con la quale gli Stati Uniti rivendicavano il diritto di esercitare la legittima difesa preventiva per impedire qualsiasi attacco con armi di distruzione di massa o atti di terrorismo: una dottrina criticata come rozza espressione di forza dell’iperpotenza americana.

La presidenza Obama sembra condurre gli Stati Uniti verso un nuovo cammino, caratterizzato dalla necessità di individuare una soluzione per porre fine alle guerre e alle azioni terroristiche che hanno l’effetto di destabilizzare e indebolire i paesi del Medio Oriente. Una soluzione imperniata nella cooperazione e nel dialogo con i diversi attori dell’area. E il piano per il ritiro delle truppe dal territorio iracheno, la collaborazione con il Pakistan, l’apertura all’Iran sembrano confermare la nuova direzione assunta dalla leadership americana.

Intanto gli attentati si alternano agli scontri, le morti si susseguono e aumenta il numero di soldati mandati al fronte. Il governo americano e i capi di stato europei hanno più e più volte ribadito che la violenza non è la soluzione, ma questa continua a crescere in modo ineludibile e, inarrestabile, semina distruzione.

Obama incarna le speranze di una nuova america che possa guardare il mondo con un diverso approccio, magari più compresivo e meno aggressivo.

Ma l’occhio critico non deve essere mai sostituito da una eccessiva, e non ancora giustificabile, fiducia.

 

 

 

 

 

Marco Luigi Cimminella