Poche centinaia di metri di distanza e poche ore di differenza. Che importanza storico-politica può avere spostare il luogo e l’orario di morte di un prigioniero la cui sorte era, probabilmente, segnata?
Apparentemente nessuna. Perché allora il nome di colui che ha ammazzato Benito Mussolini il 28 aprile del 1945 cambia ogni volta che qualcuno affronta il problema della sua esecuzione? Perché, dopo sessantaquattro anni, non è possibile stabilire con esattezza chi ha realmente fatto fuoco? Perché c’è l’interesse a mantenere le cose come stanno, a lasciare che i dubbi sostituiscano le certezze, a rendere incomprensibile un evento che ha sancito il passaggio da un regime dittatoriale ad una forma di governo che si dice essere democratica? Gli interessati sono coloro che contestano la versione dei fatti cosiddetta “ufficiale”, cioè quella, imposta dal PCI, che si legge a tutt’oggi sui libri di storia? Certamente no.
Se c’è gente che ha tutto da guadagnare a mescolare le carte in tavola questi sono i comunisti o post-comunisti italiani. Allora si capisce come mai viene tollerato il palleggiarsi di responsabilità nell’ambito dello stesso terzetto di giustizieri che hanno detto di aver ucciso il Duce davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) alle 16,10 di un uggioso sabato di fine aprile. Il killer per antonomasia Walter Audisio, alias colonnello Valerio (W. Audisio. In nome del popolo italiano. Edizioni Teti, 1975), viene baipassato dall’alter ego di Luigi Longo, il partigiano Guido, Aldo Lampredi (M. Caprara. Quando le botteghe erano oscure. Il Saggiatore, 1997) a sua volta messo in secondo piano da Michele Moretti (Pietro), il commissario politico della 52° Brigata Garibaldi reclutato a Dongo perché sapeva dove il capo del fascismo e la sua compagna, Claretta Petacci, avevano trascorso la loro ultima notte in quel di Bonzanigo (F. Giannantoni. “Gianna” e “Neri”: vita e morte di due partigiani comunisti. Mursia, 1992; M. Nese. Ma quale pista inglese. Mussolini fu eliminato per ordine del Cln. Il Corriere della Sera, 30 Agosto, 2004; F. Magni. La verità è già scritta. Moretti uccise Benito. Il Giorno, 7 Settembre, 2006). Si tollera che l’Audisio faccia la figura del bugiardo purché venga salvaguardata la vulgata che prevede un comunista come “esecutore di alte opere di giustizia” e che indica nelle ore pomeridiane e nella via XXIV maggio, quella antistante al cancello di villa Belmonte, il luogo che ha visto il tragico epilogo del ventennio fascista. Si concede ad un integerrimo patriota azionista, l’ingegner Luigi Carissimi Priori, la facoltà di revisionare l’accaduto quando ha sostenuto che a sparare sono stati più di un killer e con armi diverse (R. Festorazzi. Churchill-Mussolini: le carte segrete. Datanews, 1998) e si tace quando il taciturno e ormai vecchio Michele Moretti rivela ad un giornalista russo (Mikail Ilinski) di aver personalmente esecutato Mussolini e Claretta (F. Bartolini. Lario nascosto. Editoriale, 2006).
Tuttavia, se si spostano gli orari al mattino-primo pomeriggio e i luoghi dell’esecuzione la tolleranza si riduce a zero anche se gli aguzzini hanno pure loro il fazzoletto rosso al collo. Ecco che allora il sedicente carnefice di Mussolini Giuseppe Frangi (Lino) trova inaspettatamente la morte otto giorni dopo la fine del Duce (L. Garibaldi. Vita col Duce. Effedieffe, 2001; A. Bertotto. La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008)), così come la trova nell’immediato dopoguerra anche un altro presunto giustiziere, il partigiano Luigi Canali meglio noto come capitano Neri (A. Zanella. L’ora di Dongo. Rusconi, 1993; R. Festorazzi. La gladio rossa e l’oro di Dongo. Il Minotauro, 2005). Quando è Luigi Longo (il numero due del PCI dopo Palmiro Togliatti) ad essere incolpato di tirannicidio (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978; U. Lazzaro. Dongo. Mezzo secolo di vergogne. Mondadori, 1997; G. Pisanò. Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004) improvvisamente compare un memoriale, scritto da Aldo Lampredi ed estratto dall’irenico cappello a cilindro della perestroika–glasnost veltroniana e cossuttiana, dove si ribadisce che ad uccidere il leader fascista è stato W. Audisio, colui al quale il CNLAI aveva ordinato di recarsi a Dongo con il compito esplicito di giustiziare, oltre al loro capo, anche i gerarchi fascisti catturati a Musso il 27 aprile del 1945 (A. Lampredi. La fine del Duce. L’Unità, 23 Gennaio, 1996).
Le dichiarazioni di Orfeo Landini (il commissario Piero), un comunista ottuagenario che dice di aver partecipato alla mattanza due ore prima delle 16,10 e non al cancello di villa Belmonte, ma in un viottolo di Bonzanigo, passano inosservate senza suscitare scalpore anche perché la sua testimonianza è palesemente inverosimile (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C. D. L. Edizioni, 1998). Alfredo Mordini (Riccardo), un altro presunto giustiziere rosso (U. Lazzaro. op. cit.; A. Viviani. Osservazioni sul mistero della morte di Mussolini e Claretta Petacci. www.larchivio.org. Reperibile per via telematica; P. Maccarini. Claretta e Ben. La fine. Edizioni Guardamagna, 2005), si è sempre chiuso in un ostinato silenzio, lasciando spazio ad illazioni che hanno moltiplicato i dubbi e le perplessità. Quando ha assunto le vesti dell’esecutore antimeridiano del Duce, il partigiano garibaldino Giacomo (Bruno Giovanni Lonati) si è smentito da solo. Ha scritto delle grossolane assurdità (G. B. Lonati. Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità. Mursia, 1994) a cui qualcuno ha dato credito (L. Garibaldi. La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? Ares, 2002), facendo il gioco di coloro a cui stava bene la politica del più ce n’è meglio è.
Fa solo sorridere e mette tenerezza, senza impensierire nessuno, la versione dei fatti che prevede Claretta nel ruolo dell’esecutrice di un Duce consenziente (A. Nava. Il terzo uomo di Mussolini. Zecchini Editore, 2002). Ad aumentare la ben gradita confusione ha provveduto di recente un nipote di Mussolini (Guido), affermando che suo nonno è stato ammazzato nel cuore della notte da agenti speciali inviati da Winston Churchill in persona (A. Bertotto. Il processo a Mussolini: risultati delle indagini preliminari. Storia del Novecento, Dicembre, 2007). Per non parlare poi di quello che ha detto Francesco Cossiga quando ha “rivelato” che il comunista assassino di Giulino di Mezzegra è stato fatto velocemente espatriare dal PCI in America latina (Vite straordinarie. Rete 4, Gennaio, 2007).
La volontà dei comunisti di depistare e di mistificare gli avvenimenti realmente accaduti si è estrinsecata a 360 gradi. Basta ricordare un fatto. Il mitra MAS francese calibro 7,65 (modello 1938, matricola n° 20830) usato (si dice) dai partigiani per uccidere Mussolini e la sua cortigiana preferita è stato trafugato di nascosto in Albania alla fine di novembre del 1957 (AA. VV. L’ultimo schiaffo alla Patria. Il mitra che avrebbe ucciso il Duce esposto a Tirana. www.politicaonline.net. Reperibile per via telematica). Non una parola è stata detta dalla nomenklatura marxista di casa nostra quando è comparsa la notizia che la Questura di Modena ha donato alla Repubblica partigiana di Montefiorino il mitra ERMA calibro 9 “con il quale vennero fucilati Benito Mussolini e Claretta Petacci” (AA. VV. Al museo partigiano di Montefiorino il mitra che uccise Mussolini. www.sassuolo2000.it. Reperibile per via telematica). Il silenzio totale è seguito alla imprudente dichiarazione di Michele Moretti: “Il mitra che ha ucciso Mussolini è nel solaio di casa mia” (G. Cavalleri. Ombre sul lago. Piemme, 1995) come pure a quella del generale Ambrogio Viviani: “Il mitra cal. 7,65 mod. 38 matricola 20830 è conservato al museo del KGB in Mosca dove i comunisti italiani ritennero doveroso inviarlo e dove il sottoscritto ha avuto la possibilità di vederlo e di sentirne la storia” (A. Viviani. op. cit.). Non fa quindi meraviglia se un Dongologo famoso, Franco Bandini, parla di un mitra cecoslovacco calibro 9 (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978) e se il comandate partigiano dell’Oltrepò pavese, professor Paolo Murialdi (già redattore de Il Giorno), asserisce che non è la pistola Beretta calibro 9 (modello 1934, matricola n° 778133), conservata nel Museo Storico di Voghera, quella con cui è stato dato il colpo di grazia a Mussolini (O. Ciai, P. Coppola. Il mitra che uccise Mussolini dal partigiano Valerio a Tirana. www.repubblica.it. Reperibile per via telematica).
Silvio Bertoldi ha scritto: “Per usare una celebre frase del grande Tommaso Besozzi a proposito del bandito Giuliano e delle rivelazioni sulla sua fine, anche per Mussolini si può dire: Di sicuro c’è solo che è morto” (S. Bertoldi. Piazzale Loreto. BUR, 2001). Nel 2008 si può aggiungere senza tema di smentite: “Di sicuro si sa che non é morto come ce l’hanno raccontato i partigiani inviati dal CNLAI di Milano con il compito di fare giustizia in nome del popolo italiano” (F. Bandini. Fu fucilato due volte. Storia Illustrata, Febbraio, 1973; F. Andriola. La morte di Mussolini. Una macabra messa in scena. Storia in Rete, Maggio, 2006; F. Andriola. Il dilemma di Giulino di Mezzegra. Storia in Rete, Settembre, 2006). Per non dire “come” e “quando” è morto il Duce si sono mosse per anni forze politiche decise a non far trapelare fatti che evidentemente si volevano a tutti i costi occultare. Oggi possono sembrare insignificanti cavilli storici. Eppure per qualcuno non lo sono stati per lunghi decenni.