Morte di Mussolini: il rapporto dell’agente OSS americano Lada Mocarski è inattendibile

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C’è da trasecolare. Le sorprese non finiscono mai. La “vulgata” resistenziale (definizione dello storico del fascismo per eccellenza Renzo De Felice), quella che prevede la morte di Mussolini davanti al cancello di villa Belmonte di Giulino di Mezzegra (28 aprile del 1945), è dura a morire.

 Questa volta ci si è messo di buzzo buono persino un ricercatore italoamericano, Mario J. Cereghino, che ha trovato “valide” sponde in due storici di chiara fama, Giorgio Cavalleri e Franco Giannantoni. Il loro libro, scritto a tre mani ed intitolato “La Fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946)” (Garzanti, 2009), è comparso sugli scaffali delle librerie pochi giorni fa. E’ stato preceduto da un intensivo battage telematico e cartaceo (Le ultime ore di Mussolini. Spararono in due. fonte ansa.it; M. Sapio. Gli ultimi giorni di Mussolini. Nuova Storia Contemporanea, Gennaio-Febbraio, 2009). Riporta quanto sta scritto su un rapporto definito “segreto” ritrovato nel Maryland (USA) presso il National Archives and Records Administration in quanto “desecretato” nel 2000 dalla presidenza di Bill Clinton. Porta la firma di uno 007 americano di Allen Dulles, il direttore della centrale centroeuropea dell’OSS (Office of Strategic Service) situata in Svizzera (Berna). Il nome dell’agente OSS (441) è Valerian Lada Mocarski (era un colonnello dell’esercito USA). Ha scritto il suo “memoriale”, in due riprese, subito dopo l’aprile del 1945.

Alcune incongruenze scritte nel rapporto del Mocarski sono state opportunamente sottolineate dagli autori del libro: ad esempio la confusione tra Claretta Petacci e Zita Ritossa (compagna del fratello della prima), come pure l’anacronistica comparsa della cortigiana preferita dal Duce nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino. Altre imprecisioni lasciano perplessi per non dire esterefatti. Luigi Canali (alias capitano Neri), il capo di Stato Maggiore della 52° Brigata d’Assalto Garibaldi, quella che catturò il Duce a Dongo, viene chiamato “comandante partigiano di un unità locale”, qualifica quest’ultima che apparteneva a Martino Caserotti (nome di battaglia capitano Roma), il responsabile in primis dei partigiani operanti sui rilievi montuosi della Tremezzina. Altrove il Neri viene definito “luogotenente” del comandante garibaldino (Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro), colui che portò, la notte del 28 aprile (1945), la coppia dei prigionieri (Mussolini e la Petacci) in casa De Maria, un cascinale situato in quel di Bonzanigo (nota bene: il “luogotenente” di Pedro era Urbano Lazzaro, il partigiano filobadogliano Bill). Il Neri è stato ucciso dai comunisti il 7 maggio del 1945: quando parlò con il Mocarski? E’ evidente che quest’ultimo chiacchiera per sentito dire!

Il Mocarski di scemenze ne scrive parecchie. Dice che durante la notte del 28 aprile la coppia celebre è giunta in casa De Maria passando dal centro di Bonzanigo e non percorrendo la mulattiera che sale sino al rustico dei contadini ospiti attraverso i campi che attraversano la zona compresa tra Azzano (situato a valle sulla lariana occidentale) ed il borgo medievale sito a poca distanza da Giulino di Mezzegra, Bonzanigo per l’appunto. Secondo lui, il capo del fascismo e la sua amante calzavano due stivali da “equitazione”, mentre si sa con certezza che Claretta indossava un paio di scarpe ortopediche (ritrovate sul luogo del delitto). Mussolini, poi, era solito portare stivali fatti su misura con una vistosa cerniera lampo posteriore. Sempre per l’agente dell’OSS 441 ad accogliere, alle 16 circa, i giustizieri pomeridiani (i comunisti Walter Audisio, colonnello Valerio, Aldo Lampredi, Guido e Michele Moretti, Pietro) sarebbe stato il padrone di casa, Giacomo De Maria. E’ arcinoto che costui fin dalle ore 14 del 28 era corso al bivio di Azzano per vedere il Duce che veniva trasferito da Dongo alle carceri di Como. Una voce messa in giro da Martino Caserotti per spopolare la zona da occhi indiscreti visto quello che si doveva fare il pomeriggio e cioè fucilare due cadaveri morti da un pezzo davanti al cancello di villa Belmonte ubicata, come sappiamo, nel comune collinare di Giulino di Mezzegra, un paese un tempo noto per la bontà del suo pane (bibliografia in: A. Bertotto. La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008).

Il Morcaski dice, inoltre, che a Bonzanigo c’era anche il capitano Neri, una questione mai risolta che lo stesso Cavalleri e company non mancano di sottolineare. Anzi sarebbe proprio stato il Neri a sparare due colpi di grazia al Duce perchè “gli occhi del leader fascista erano aperti e roteavano ancora dopo la fucilazione”. Il realtà chi a sparato quei colpi di grazia e chi ha riferito quella frase al Morcarsky è stato, probabilmente, il capitano Roma che lo ha candidamente confessato al giornalista Franco Serra nel 1962 (Sparò la pistola di Guido. Settimana Incom Illustrata, Aprile-Maggio, 1962). Per il Mocarski l’Audisio avrebbe, invece, esploso due cartucce con un revolver (pistola a tamburo, nota bene) calibro 7,65 mm., imprestatogli dal Moretti, colpendo alla schiena Mussolini addossato al cancello di villa Belmonte (di solito i partigiani avevano la più duttile automatica Beretta calibro 9 mm. corta, è una cosa risaputa da tutti). Il ferimento del dorso è del tutto impossibile in quanto il referto autoptico, stilato dal dottor Caio Mario Cattabeni (30 aprile del 1945) non ha documentato nessun foro d’entrata sulle terga di Mussolini. Quest’ultimo sarebbe stato colpito dai proiettili di un arma a colpo singolo (pistola) esplosi da Guido (Aldo Lampredi) che lo avrebbero raggiunto al fianco destro anteriormente (F. Serra. op. cit.).

Testimonianze non provate dicono che la pistola in questione (una Beretta calibro 9 mm., matricola n. 778133) è tuttora esposta al Museo Storico di Voghera perché il Lampredi l’ha donata ad un partigiano (Alfredo Mordini, Riccardo), quello che comandava il plotone d’esecuzione che ha fucilato alla schiena i Gerarchi fascisti il pomeriggio del 28 aprile del 1945 sul lungo lago di Dongo. Secondo il Mocarski, il Moretti avrebbe subito dopo usato il suo mitra MAS di fabbricazione francese (modello 1938, calibro 7,65 mm. matricola n. 20830) per bersagliare al petto il Duce, ferendolo con tre pallottole. Totale dei colpi 7. All’autopsia, invece, le lesioni cutanee perforanti sono risultate 9, forse 8 se il colpo al braccio destro ha poi trafitto il corpo mussoliniano in seconda battuta. Il Mocarski giocava a rimpiattino. In precedenza nei suoi rapporti, ritrovati dal professor Brian Sullivan (lo storico americano del fascismo), aveva scritto che era stato l’Audisio a freddare il Duce “con 5 colpi di mitra sparati al petto trasversalmente”. Lo aveva fatto, dice lui, per adeguarsi ai racconti scritti dal colonnello Valerio nel 1945 sull’Unità, l’organo di stampa del PCI. Non voleva incrinare i “buoni rapporti” che intercorrevano tra gli USA e i comunisti italiani. Ma quali “buoni rapporti”? Un altro agente di Allen Dulles, la sua mano longa a Roma James J. Angleton, coordinatore della cosiddetta “Operazione Italia”, aveva tolto dalle grinfie dei rossi il principe nero Junio Valerio Borghese proprio per utilizzarlo in chiave antibolscevica.

Ulteriore confusione l’agente OSS americano l’ha fatta quando ha descritto l’abbigliamento dei killer comunisti pomeridiani. Ha scambiato, sulla scorta dell’analisi dei vestiti, l’Audisio con il Lampredi. Quest’ultimo aveva infatti un impermeabile chiaro ed un basco in testa, la sua tenuta abituale come afferma Massimo Caprara, l’ex segretario di Palmiro Togliatti. Il colonnello Valerio indossava, invece, un giaccone militare e mostrava in bell’evidenza sul petto un rettangolo rosso con al centro tre stellette dorate. Così si è sempre fatto fotografare l’Audisio proprio per dimostrare che il colonnello Valerio era lui. Per il Mocarski l’Audisio aveva “i capelli neri pettinati all’indietro”. Nell’aprile del 1945, il colonnello Valerio, con la faccia venata di vermiglio come la milza dei buoi, era affetto da un incipiente calvizie!!! Di capelli ne aveva pochi sia davanti che dietro. L’unica cosa giusta che dice il Mocarski è una sola: Mussolini fucilato (da vivo?) perdeva poco sangue. E’ cosa risaputa che il gemizio siero-ematico dal corpo di un cadavere è davvero insignificante! Possiamo concludere con un dato di fatto: nemmeno dagli Archivi USA fuoriescono relazioni che rendono accettabile la vulgata cara agli Istituti Storici della Resistenza. Ciò nonostante loro non deflettono, soprattutto quello di Como che sembra avere la cera di Ulisse nell’orecchie (come ho sentito recentemente in una trasmissione televisiva, Cento denari, trasmesso dalla comasca TV-Espansione).

Nemmeno le parole di Giorgio Pisanò (Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004) sono riuscite a far vibrare le loro poco acustiche membrane timpaniche. Il Pisanò ha dimostrato inequivocabilmente, mostrando anche una fotografia della pelliccia indossata da Claretta (squarciata posteriormente), che la sventurata giovane donna, stregata dall’orpello e con il fascino rugiadoso e sensuale dell’italiane in carne, è stata fucilata proditoriamente alle spalle. Per il Mocarski è morta per i colpi ricevuti sul petto (sic!!!). Il che è tutto dire. Il Morcaski è stato il De Profundis e non il Te Deum americano per la faziosa sinistra italiana che continua ancora a mistificare la storia che i nostri ragazzi liceali leggono a tutt’oggi sui libri di scuola. In sintesi: il “rapporto” Lada Mocarski è una “relazione” di cui è utopistica la finalità e fievole l’echeggio. Due arcinoti scrittori (il Cavalleri ed il Giannantoni), acerrimi sostenitori della verità audisiana da loro revisionata in chiave USA, ancora una volta hanno fatto un buco nell’acqua.

Vi è una professionalità dell’estremismo, e del sangue, che ha per costante l’ansia di uccidere e per accessorio causale l’ideologia cui applicarla. Il dopo guerra ha avuto l’ambizione d’essere rivoluzionario. Ma della rivoluzione ha spartito soli i connotati deteriori: la ferocia e la vendetta.