Saranno famosi. I nostri avversari, s’intende. La nazionale quattro volte campione del mondo, esce dai verdi rettangoli del Sudafrica col passo indolente e stucchevole dei suoi pilastri: sgretolati più dal blasone che dal tempo. La stucchevole prestazione già offerta contro l’Egitto viene ripetuta, bissata, amplificata al cospetto del Brasile. Qualcuno aveva detto che il recente due a zero incassato dalla squadra pentacampeon era figlio di una blanda amichevole, e che in gara ufficiale sarebbe cambiata la musica. Ce ne siamo accorti. E anche gli USA, per quanto stupiti dalla nostra pochezza, devono essersi fregati le mani fino a spellarsele. Loro, la qualificazione alle semifinali l’hanno sudata sul campo; sulla truppa di Lippi, invece, si può avanzare qualunque legittimo dubbio. Nessuna beffa a un millimetro dal traguardo, niente spazio per recriminazioni o sgambetti del destino: la figuraccia è in mondovisione. La bolla dell’orgoglio si è sgonfiata sotto i colpi dei felpati punteros, e l’immancabile paragone con Bearzot non occuperà per un pezzo le colonne di giornali e riviste sportive. Lo squittio dei televisori italiani è stato zittito già alla fine del primo tempo: tre sberle senza reazione, e siano benedetti i calcoli in radiocronaca. “Basterebbe un goal”, ci ricordano, ma in campo nessuno accende la luce. Gli elementi di pregio e i residuati (bellici) reduci dal trionfo mondiale 2006 trotterellavano distratti, come svagati turisti gettati nella mischia per caso. Quelli che avevano cambiato sul serio le sorti dello sport tricolore, nonostante Moggiopoli, stavano altrove. Forse comodi in poltrona, forse inquieti come Rino Gattuso, poco più che ospite in una partita che gli sarebbe spettata di diritto. Non è questione di assenze, perché una tabula rasa non ammette scusanti, ma non si vivacchia di solo carisma; ci vogliono piedi e cervello. Dei primi eravamo provvisti a metà, il secondo è un’assenza intollerabile. La stampa ha protetto le scelte del Mister, ma il pubblico ha visto uno spettacolo indegno. L’unico impeto di generosità s’è visto sui calci di punizione: sei palloni regalati alle curve. Squisitamente privi di certezza, possiamo affermare che almeno la metà il signor Del Piero li avrebbe consegnati alla rete, con buona pace dei suoi detrattori. Il monologo di Pirlo, invece, pari al dissennato caos di De Rossi, allo smarrimento di Zambrotta e al tramonto di Cannavaro, ha consegnato le chiavi del centrocampo in sequenza ai campioni d’Africa e poi ai carioca, liberi di sfondare da tutte le parti. Il commissario tecnico, profeta di un 4-2-3-1 tanto aggressivo quanto proficuo, ha variato modulo, tentando vane contromisure alla collezione di svantaggi. Tre volte su tre, una sequenza lapidaria. E se con gli Stati Uniti la rimonta era riuscita grazie a uno straordinario Giuseppe Rossi, stavolta la fiesta è finita anzitempo. Ci hanno studiati, capiti, e presi per il naso. Molti scriveranno che questo non era il mundialito ufficiale, che la cabala dice quello, l’oroscopo quell’altro, e gli dei del pallone son tondi anch’essi, quindi imprevedibili. Sarà, ma a milioni di spettatori pare che alla fine premino sempre il merito e la fantasia. Ripartiamo, pieni di vaghe speranze e una salda verità: solo gli inglesi festeggiano il secondo posto. Noi, nemmeno quello.