I frutti della rabbia

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Traduzioni inventate da traduttori artisti, mistificazioni di capolavori, fraintendimenti: come si dice fischio e si capisce fiasco!

 

A cura di  

Leone Silvano 
 
 
 

Un perspicace e lungimirante francese settecentesco, Denis Diderot, in Les Bjioux Indiscrets, diceva: “non è necessario conoscere una lingua per tradurla, perchè si traduce soltanto per persone che non la conoscono.” : aveva senza dubbio ragione.

Certamente le traduzioni ci permettono di avere accesso ad un infinito patrimonio culturale espresso in libri, ma anche film, articoli e quant’altro, ed altrettanto indubbiamente la funzione della traduzione ed il ruolo stesso del traduttore rappresenta una figura importantissima nella società odierna: ai traduttori devo personalmente la scoperta (in età adolescenziale) di molti autori, da Albert Camus a Stephen King, e tuttora mi avvalgo di traduzioni per le opere di moltissimi autori dei quali non conosco la lingua nella quale originariamente scrissero, un esempio su tutti Фёдор Михайлович Достоевский, cioè Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Tuttavia vi sono dei casi eclatanti di scriteriati “made in Italy” che, non si comprendere per quale arcano ed oscuro motivo, rovinano o comunque intaccano dei capolavori, svilendoli totalmente sia dal punto di vista del significante che del significato.

Si parli di letteratura, di cinema, o di letteratura nel cinema, vi sono dei casi di imbastardimento linguistico che sono stati capaci di pregiudicare, a mio parere, molte opere, lasciando il lettore, o lo spettatore all’oscuro della reale essenza del titolo o, in certi casi, di intere parti dell’opera di un determinato autore.

Un paio di anni addietro ad esempio mi trovavo a passeggiare per Roma, quando lessi la locandina riportante il titolo di un film che mi lasciò abbastanza perplesso per la sua ferina idiozia: “Un bacio romantico”: roba da polli. Ma ancor più stupito rimasi nel leggere il nome del regista, uno fra i miei preferiti, l’autore di quei capolavori indiscussi rispondenti al nome di “2046” e “In the mood for love”, Wong Kar Wai, un poeta più che un regista. Rifiutandomi di credere che il titolo reale fosse quella bestialità andai a cercare sul web informazioni più precise, e le ottenni facilmente: “My blueberry nights”, traduzione corretta in italiano “Le mie notti di mirtillo”, non l’idiozia detta in precedenza; dove l’autore sia andato a pescare la parola bacio e romantico non ci è dato saperlo, né chi abbia fatto passare una traduzione così incompetente. Ma quanti si saranno astenuti dall’andare a vedere questo film di Wai, l’ennesimo capolavoro per giunta, semplicemente per via del titolo reputandolo una baggianata sulla scia di “Natale in Rio” etc etc…?

Altro caso: Alexander Pope è un poeta inglese del 1700 che, tralasciato spesso, ingiustamente, nel sud europa scolastico, ignorato logicamente da noi italiani, tronfi della nostra cultura e chiusi come non mai nel nostro castello, è adorato dai letterati anglosassoni, considerato una sorta di simbolo della cultura inglese (a lui si deve oltretutto quello che molti credono un proverbio: errare è umano, perseverare diabolico).

Non so chi abbia avuto la scellerata idea di tradurre uno fra i versi più belli dell’intera opera di questo autore in una maniera così ridicola, ma realmente meriterebbe la gogna letteraria a vita: come si fa a tradurre “Eternal sunshine of the spotless mind” (quando per giunta la poesia alla quale appartiene questa frase è anche citata all’interno del film stesso) con un titolo idiota come “Se mi lasci ti cancello”?

Non basta che ci sia Jim Carrey per fare un film comico, anzi, tutt’altro, ma evidentemente chi ha “tradotto” il titolo ciò non lo aveva capito, fatto sta che ora un film meraviglioso, con un titolo tratto da un altrettanto meraviglioso verso di Pope, se vogliamo chiave dell’intero senso del film, in italiano suona come il classico film spazzatura di Natale, roba che si va a vedere dopo essersi ingozzati di agnello e panettone.

Mettiamo a paragone le due traduzioni: “Eterno splendore delle menti immacolate”, “Se mi lasci ti cancello”.

Atroce, semplicemente atroce.

Sorvolando su discutibili figure come quella della traduzione della celebre frase del film “1997: fuga da New York” dove il “Call me Snake” pronunciato da Kurt Russel diviene, per un mistero zoologico, il “Chiamami Jena” passato poi alla storia, realmente il peggior lavoro che mi è capitato di notare nei miei vagabondaggi letterari è senza dubbio quello di uno dei libri ai quali sono più legato: “The grapes of the wrath” di John Steinbeck, tradotto miserabilmente in italiano con “Furore”.

“Furore” si traduce con “Fury”, mentre il reale titolo, tradotto letteralmente sta per “I frutti della rabbia”, o ancora meglio “Gli acini della rabbia” che poi diviene per associazione “frutti”. Per non parlare dello scempio che vi è all’interno del libro tradotto: intere pagine saltate, brani tradotti totalmente in maniera arbitraria…insomma, viene da chiedersi se si chi legge in italiano questo libro possa dire di leggere realmente qualcosa che rassomigli all’originale. Una bestialità senza mezzi termini.

Certo, ci sono casi nei quali una traduzione può risultare più aggraziata all’orecchio del lettore italiano, con molta benevolenza è il caso forse del masterpiece di Salinger “The catcher in the Rye”, tradotto come “Il giovane Holden”: il titolo reale, che preserva la sua essenza nelle traduzioni straniere, sarebbe corretto tradurlo come “L’acchiappatore nella segale”, ma, dato che effettivamente nella lingua di Dante non è suoni poi così bene, allora è possibile lasciar correre tale traduzione, che inoltre è afferente al significato dell’intero racconto, anche se una saggia mossa sarebbe in questo caso porre la traduzione letterale in piccolo sotto la traduzione “artistica”.

Si potrebbe continuare all’infinito, notando come il topo e il papero più famosi del mondo si chiamino in realtà Michele e Donaldo, e non anonimi “Topolino” o “Paperino”, oppure come “L’etranger” di Albert Camus sia forse più corretto da un punto di vista letterario tradurlo “L’estraneo” invece che “Lo straniero”, in virtù sia del suo valore come parola che, soprattutto, del valore che assume proprio il termine nel contesto del libro.

Purtroppo c’è sempre qualcuno che si sente artista, e che si arroga il diritto di demolire dei capolavori con le sue genialate fuori posto, non comprendendo che il lavoro del traduttore, per quanto banale, è di fornire la migliore traduzione, non di reinventare in toto un titolo, come disse George Borrow, un ormai dimenticato,  inglese ottocentesco: “La traduzione è, nel migliore dei casi, una eco.”

Rendiamo infine giustizia ad Alexander Pope: 

How happy is the blameless vestal’s lot! 
The world forgetting, by the world forgot. 
Eternal sunshine of the spotless mind! 
Each pray’r accepted, and each wish resign’d.
 

Altro che “Se mi lasci ti cancello”.