«Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito».
[F. Bacon]
BACON
In Francis Bacon è quasi impossibile scindere la vicenda biografica dal percorso artistico: la sua pittura nasce da un tormento esistenziale e ne rappresenta espressione e tentativo di elaborazione.
Nasce a Dublino il 28 ottobre 1909 da una famiglia inglese. Il padre alleva cavalli da corsa e reagisce alle evidenti propensioni omosessuali di Francis bambino con pesantissime punizioni. Allo scoppio del primo conflitto mondiale la famiglia si trasferisce a Londra (con frequenti rientri in Irlanda) dove Bacon riceve una educazione privata, a causa di una malattia asmatica che gli impedisce di frequentare la scuola,. Tale malattia influenzò sicuramente la sua opera, le sue figure spesso si contorcono proprio come in preda a una crisi d’asma. Nel ‘26, non appena mostrò esplicitamente i segni della sua omosessualità, fu cacciato di casa dal padre, ex capitano di fanteria.Sono gli anni dei soggiorni berlinesi e di quelli parigini, gli anni in cui il giovane Bacon entra in contatto con alcune opere che ne segneranno il cammino artistico, da "La strage degli innocenti" di Poussin, all’urlo dell’infermiera ferita sulla scalinata di Odessa ne "La corazzata Potemkin", pellicola del 1925 di Eisenstiein. Fino all’esposizione parigina di Picasso del 1927, l’incontro fatale che gli mostrerà «tutto un territorio ancora, in un certo senso, non esplorato, di forme organiche relative alla figura umana che la distorcono completamente.» L’inizio della sua carriera pittorica, alla fine degli anni venti, è così improntato sulle avanguardie cubiste e surrealiste. Per un certo periodo fece anche il designer, prediligendo soprattutto l’accostamento di acciaio e vetro in uno stile tra Bauhaus e Art Decò. Pare che avesse notevoli possibilità di carriera, cui però rinunciò, convinto della sua strada di pittore. Nel 1928 Bacon si trasferì definitivamente a Londra, in una casa semplice e ordinata. Nell’atelier dove lavorava invece, il caos regno per trent’anni. Alla sua morte vi trovarono 7500 oggetti, ma nessuna tavolozza, scoprendo così che il pittore usava i muri per mescolare il colore. “Mi sento a casa in questo caos perché questo caos mi ispira delle immagini”, dice lui; “L’atelier resta un incanto viscerale e un mistero, perché guardare lì era come guardare dentro la sua testa”, dice chi ha eseguito la catalogazione di tutti gli oggetti per il loro trasferimento all’Art Gallery di Dublino.Poco si sa della produzione ad olio dell’artista prima del 1940, poiché Bacon stesso ha distrutto molti dei suoi lavori. Nel 1945 la Lefevre Gallery di Londra espone il trittico "Three Studies for Figures at the Base of Crucifixion", un gruppo di figure urlanti dove la tragedia greca si mescola alla tradizione pittorica cristiana del dramma della Crocifissione (dramma che continuerà a comparire nelle opere successive). Inizia la consacrazione artistica di Bacon. Da quel trittico così nuovo, così disperatamente arancione, la pittura di Bacon cambia registro e nei successive 8-9 anni l’artista sforna una serie di capolavori assoluti. Tra questi ancora molti trittici il cui uso intende creare uno spazio avvolgente attorno allo spettatore. “Essere capace di mettere una trappola per cogliere il fatto nel suo punto più vivido”, così definisce Bacon la sua strategia pittorica. Nel 1948 il Museum of Modern Art di New York acquista "Painting 1946", nel 1953 la Tate Gallery di Londra acquisisce "Three Studies for Figures at the Base of Crucifixion". Nel 1954 Bacon rappresenta l’Inghilterra, assieme a Ben Nicholson e Lucien Freud, alla Biennale di Venezia. Nel 1961 riprende l’analisi del "Ritratto di Innocenzo X" di Vélazquez, a cui già si era accostato nel 1949. Espone nei più importanti centri mondiali dell’arte contemporanea, dalla Tate Gallery di Londra nel 1962, al Guggenheim Museum di New York e all’Art Institute di Chicago nel 1963. La mostra del 1965 della Kunsthalle di Amburgo, si sposta al Moderna Museet di Stoccolma e al Museum of Modern Art di Dublino. Negli anni ’60 i suoi ritratti cominciano ad avere un nome: gli amici più intimi, Isabel Rawsthorne, Henrietta Moraes, Lucian Freud, George Dyer. Quest’ultimo, suo amante e oggetto ricorrente della pittura di Bacon, muore suicida nel 1971 lasciando una lacerazione enorme nell’animo del pittore: l’ultima tela a cui stava lavorando portava ancora Dyer come soggetto. “Il tempo non guarisce. Non si dimenticano le persone che muoiono”, disse. Non si dimenticano, anzi sono di monito a noi per ricordarci della brevità della vita”.Dagli anni settanta la sua fama riempie delle sue opere le maggiori mostre pittoriche del mondo ma potenza della sua pittura, l’individualità della sua espressione artistica, ne fanno comunque un solitario nel panorama dell’arte del XX secolo.
Attivo fino alla fine e spiazzante anche nella morte, Francis Bacon cessa di vivere il 28 aprile 1992 a Madrid, dove si era recato per una breve visita. Influenze e caratteri principali dellA PITTURA PSICOSOMATica DI BACON Muybridge e Michelangelo furono per un certo periodo i suoi modelli principali. Come disse egli stesso: “Michelangelo e Muybridge si mischiano nel mio pensiero. Forse ho imparato da Muybridge le posizioni della figura e da Michelangelo l’ampiezza e la grandezza delle forme. Poiché la maggior parte delle mie figure sono nudi maschili, sicuramente ha influito su di me il fatto che Michelangelo ne facesse tra i più voluttuosi di tutte le arti plastiche.”Come la tensione muscolare di Michelangelo (la famosa “terribilità”) non corrisponde a uno sforzo fisico che le giustifichi, così le figure di Bacon sono sempre in posizioni acrobatiche e inverosimili, tese solo a sottolineare la violenza sostanziale che intendono rappresentare.Più volte Bacon è stato classificato come espressionista, ma la distorsione che egli opera sulla figura umana (suo tema fondamentale e quasi unico) obbedisce a ragioni diverse da quelle degli espressionisti: ciò che vuole fare è estraniare lo sguardo dalle sue consuetudini, rappresentando l’esperienza vissuta evitando le convenzioni percettive. Come ha osservato il critico Andrei Forge, l’obiettivo è distorcere la “ stabilità del punto di vista” dell’osservatore, esercitando su di lui un effetto catartico.Meglio si addice alla sua pittura il termine realismo,che non vuol dire rappresentazione descrittiva o imitativa (o meglio definita da lui “illustrazione”), ma significa adesione all’esperienza vitale, rappresentazione di frammenti della realtà “sine ira e sine studio”.Il suo lavoro prende le mosse dall’opera del Picasso degli anni Venti, anche se in realtà se ne distacca ben presto.La messa in scena nella pittura di Bacon funziona secondo un modello dialettico, attraverso tensioni e contraddizioni. La figura umana appare ai limiti della dissoluzione, la pittura è stesa e poi tolta, il tratto è violento, la materia pittorica viene a identificarsi con la convulsione della carne. Per la sua realizzazione a volte Bacon lancia manciate di pittura sulla tela (il “grumo”), formandole poi anche con le mani, per poi passare uno straccio a togliere la stessa materia da lui creata. La pittura è intesa come gesto violento, tesa ad affermare la “brutalità” del fatto che sta accadendo.I suoi quadri non significano nulla, non c’è nessun simbolismo, sono solamente immagini la cui interpretazione non è “opportuna”: vengono vissuti come si assiste a una carneficina rituale o come si subisce un incidente.Anche le fotografie furono per Bacon fonte di ispirazione lungo tutto il corso della sua attività artistica, forse proprio per questo senso di caducità che portano in loro. Come si scrive Roland Barthes ne La camera chiara: “ Il fascino delle vecchie foto sta nel fatto che tu le guardi e pensi: sono tutti morti.” In particolare gli servirono le foto di Eadweard Muybridge rappresentanti coppie di lottatori nudi. Bacon trasforma queste scene di intento puramente scientifico (usate nello studio del movimento) in incontri amorosi di tipo omosessuale, aggressivi e orgiastici, senza però nessun compiacimento morboso.Nel percorso di Bacon, soprattutto inizialmente, si ripetono alcuni temi riferiti alla pittura del passato e ai miti di carattere tragico ripresi dalla letteratura o dalla tradizione artistica. Si pensi, ad esempio, alla ripresa del ritratto di Papa Innocenzo X di Velàzques, delle diverse Crocifissioni o ai temi ripresi da T. S. Eliot o da Eschilo. Bacon cerca in questi motivi l’alone della tragedia, l’origine catartica e commovente. Tali temi ricorrenti fungono da punti di incontro tra l’esperienza vitale e il mito. Ed è qui che si trova la chiave per assumere l’atteggiamento giusto nell’osservare la sua opera: come si fosse davanti a una cerimonia il cui contenuto è sconosciuto. Dagli anni Cinquanta si nota una chiara differenza tra la figura, che è violenta e violentata, distorta e lo spazio circostante, che è come uno scenario vuoto. Lo spettatore si sente posto nella situazione di un guardone di fronte all’intimità più profonda della figura. Bacon accentua il contrasto tra scenario e corpo includendo a volte la figura in un prisma trasparente di linee, come in una gabbia.La presenza umana è la presenza fondamentale di tutta l’opera di Bacon. Per Bacon il ritratto è la massima concretizzazione dell’esperienza. Dagli anni Sessanta i modelli divengono i suoi amici più vicini. Il pittore comunque era solito utilizzare fotografie come il miglior riferimento del modello vivo, la cui presenza disturbava il processo di elaborazione pittorica. Bacon mette davanti ai nostri occhi frammenti di esperienza, che egli vuole trascrivere con assoluta immediatezza: “Il mio ideale –dice al riguardo- sarebbe prendere una manciata di pittura e lanciarla sulla tela con la speranza che il ritratto vi si realizzasse”.Uno dei modelli più frequenti di Bacon è se stesso, anche se egli dice di averlo fatto solo in mancanza momentanea di altri soggetti.Il trittico è il formato più definito della pittura di Bacon. L’obiettivo fondamentale è avvolgere lo spettatore in una spazialità allo stesso tempo ambigua e ispiratrice.
Beckett
Samuel Beckett nasce il 13 aprile 1906 in Irlanda, a Foxrock, un piccolo centro vicino a Dublino, dove trascorre un’infanzia tranquilla, non segnata da eventi particolari. Come tutti i ragazzi della sua età frequenta le scuole superiori ma ha la fortuna di accedere al Port Royal School, lo stesso istituto che ospitò qualche decennio addietro nientemeno che Oscar Wilde.
Fin da adolescente, infatti, mostra i segni di un’interiorità esasperata, segnata da una ricerca ossessiva della solitudine, poi evidenziata così bene nel primo romanzo-capolavoro dello scrittore, l’allucinato "Murphy". Nonostante questa propensione alla solitudine si dedica intensivamente alla pratica sportiva mentre, contemporaneamente, studia Dante, di cui diviene un eccezionale esperto anglosassone.
Ma il profondo malessere interiore lo scava inesorabilmente e senza pietà. E’ ipersensibile e ipercritico. Comincia ad isolarsi sempre di più, non esce, si chiude in casa e "snobba" completamente chi lo circonda. Probabilmente, si tratta "depressione", un male che lo costringe a letto giornate intere coltivando solo il suo amore per la letteratura.
La prima svolta importante avviene nel 1928, quando decide di spostarsi a Parigi in seguito all’assegnazione di una borsa di studio da parte del Trinity College. Qui comincia a interessarsi attivamente alla letteratura: frequenta i circoli letterari parigini dove conosce James Joyce, che gli fa da maestro.
E’ proprio questo amore all’esercizio della scrittura che lo avvia ad un percorso di liberazione dal suo male oscuro. Lo scrivere lo distrae dai pensieri ossessivi e gli offre un canale creativo in cui sfogare la sua sensibilità accesa, nonché la fervida immaginazione. In pochi anni si afferma come importante scrittore emergente. Studia Proust, autore amatissimo. La riflessione sullo scrittore francese (sfociato poi in un celebre saggio), lo illuminano circa la realtà della vita e dell’esistenza, giungendo alla conclusione che la routine e l’abitudine, "non sono che il cancro del tempo". Un’improvvisa consapevolezza che gli permetterà di imprimere una svolta decisiva alla sua vita.
Colmo di rinnovato entusiasmo, comincia a viaggiare senza meta per l’Europa, attirato da paesi come la Francia, l’Inghilterra e la Germania, senza trascurare un tour completo della sua terra, l’Irlanda. La vita, il risveglio dei sensi sembrano travolgerlo in pieno: beve, frequenta prostitute e conduce una vita di eccessi e dissolutezze. Si tratta per lui di materia che pulsa, incandescente, flusso energetico che gli permette di comporre poesie ma anche storie brevi. Dopo questo lungo peregrinare, nel 1937 decide di trasferirsi definitivamente a Parigi.
Qui conosce Suzanne Dechevaux-Dumesnil, una donna di diversi anni più vecchia che diventa la sua amante e solo svariati anni più tardi la moglie. Parallelamente scoppia la seconda guerra mondiale e Beckett opta per l’interventismo, prendendo attivamente parte al conflitto e offrendosi come esperto traduttore per le frange della resistenza. Presto, però, è costretto ad allontanarsi per evitare il pericolo che incombe sulla città e si trasferisce in campagna con Suzanne. Qui lavora come agricoltore e per breve tempo in un ospedale, infine torna a Parigi nel ’45, finita la guerra, dove trova ad attenderlo consistenti difficoltà economiche.
Nel periodo fra il ’45 e il ’50 compone varie opere, tra cui le novelle "Malloy", "Malone muore", "L’innominabile", "Mercier et Camier", e alcune opere teatrali, di fatto una novità nel suo catalogo. Sono le stesse, in pratica, che gli hanno donato fama imperitura e per cui è noto anche al grande pubblico. Vi compare, ad esempio, la celebre pièce "Aspettando Godot", da più parti acclamata come il suo capolavoro. E’ l’inaugurazione, negli stessi anni in cui opera Ionesco (altro esponente di spicco di questo "genere"), del teatro cosiddetto dell’assurdo.
Al ’57 invece risale la prima rappresentazione di "Finale di partita", al Royal Court Theatre di Londra. Tutti i lavori di Beckett sono estremamente innovativi e si discostano profondamente dalla forma e dagli stereotipi del dramma tradizionale, sia per quello che riguarda lo stile, sia per i temi. Sono banditi intrecci, suspence, trama e insomma tutto quello che generalmente gratifica il pubblico per concentrarsi sulla tematica della solitudine dell’uomo moderno o sul tema della cosiddetta "incomunicabilità" che blinda le coscienze degli esseri umani in un esasperato quanto inevitabile individualismo, nel senso di un’impossibilità di portare la propria insondabile coscienza "di fronte" all’Altro. A tutte queste ricchissime tematiche si intreccia anche il motivo della perdita di Dio, del suo annientamento nichilistico ad opera della ragione e della storia, presa di coscienza antropologica che getta l’uomo in uno stato di rassegnazione e di impotenza. Lo stile del grandissimo autore è qui caratterizzato da frasi secche, scarne, plasmate sull’andamento e sulle esigenze del dialogo, spesso acre e attraversato da una fendente ironia. Descrizioni di personaggi e ambienti sono ridotti all’essenziale.
Nel 1969 la grandezza dello scrittore irlandese viene "istituzionalizzata" attraverso l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura. In seguito, ha continuato a scrivere fino alla sua morte, avvenuta il 22 dicembre del 1989.
L’IDEA DI TEATRO DEL SECONDO NOVECENTO E LA RIVOLUZIONE BECKETTIANA
En attendant Godot andò in scena per la prima volta nel gennaio del 1953 a Parigi, dove fu accolto con grande entusiasmo dalla critica. Altrove il riconoscimento non fu altrettanto immediato, ma bel giro di qualche anno si fece strada la convinzione che Godot costituisse un capolavoro assoluto, forse il più significativo del secondo Novecento. Mentre dell’originalità e della ricchezza propositiva della sua ricerca romanzesca Beckett era pienamente consapevole; di quella ancora maggiore della sua ricerca teatrale apparentemente no. Egli affermò infatti: “Il teatro è per me un modo di svagarmi dal lavoro sul romanzo. C’è uno spazio definito con dentro delle persone. E questo è rilassante.” Il romanzo modernista, con i cui autori, Joyce in particolare, Beckett era in forte sintonia, aveva dichiarato l’impossibilità di riconoscere il mondo come un tutto unitario e comprensibile. Di fronte all’inconoscibilità –se non per frammenti- della realtà contemporanea, i limiti spaziali e temporali della forma teatrale per Beckett si trasformavano paradossalmente in occasione di libertà. Nel Novecento ci sono state, fondamentalmente, due nuove idee di teatro, entrambe antitetiche, sebbene in modo differente, al teatro naturalistico: quella di Beckett e quella di Brecht. Il teatro di Brecht stabiliva un effetto di distacco razionale, di estraniamento, tra scena e spettatore attraverso una serie di soluzioni drammaturgiche che miravano all’interruzione della finzione. Solo così, riteneva Brecht, il teatro, attraverso un testo che dimostrava gli avvenimenti anziché evocarli emotivamente e che quindi rappresentava il mondo come storicamente dato e modificabile, era in grado di esprimere la realtà contemporanea.→ inserisci considerazioni da “lo spazio vuoto”
Diversa è la strada percorsa da Beckett. Anch’egli, però, sente di avere a disposizione una forma incapace di rappresentare il suo oggetto, anch’egli ritiene indispensabile sbarazzarsi delle convenzioni naturalistiche. Ma anziché proporre una forma dichiaratamente antitetica a quella tradizionale ( come il teatro epico brechtiano), Beckett prende a prestito la forma dominante sin dall’inizio dell’Ottocento, il cosiddetto “dramma conversazione”, per poi svuotarla dal suo interno riducendo la conversazione a un dialogo fine a se stesso, privato della sua funzione significante. Beckett mantiene la tradizionale forma teatrale dichiarandone però l’inadeguatezza.
In Aspettando Godot, nella conversazione si risolve effettivamente tutto il dramma: il dialogo non conduce mai all’azione ed è interrotto soltanto da singole scenette che hanno la funzione di spezzare la monotonia e accentuare il carattere grottesco e surreale. Ma la conversazione si dichiara come un vuoto conversare, un succedersi di frasi per passare il tempo, per ingannare l’attesa in cui consiste l’essenza della pièce stessa. I due protagonisti aspettano, e colmano il vuoto dell’attesa –e della vita- attraverso una conversazione che ha continuamente bisogno di trovare un motivo, un pretesto, per proseguire; e che continuamente si esaurisce per proporre il problema centrale, aspettare Godot. Non c’è una trama, non c’è una vicenda: ma c’è un miracolo di coincidenza tra forma e contenuto: l’attesa di qualcuno che non verrà diventa la forma attraverso cui si rivela il significato dell’esistenza umana.
L’altro aspetto decisivo attraverso cui Beckett rovescia le convenzioni della forma drammatica tradizionale è dato dai momenti metateatrali. In Aspettando Godot Beckett costringe lo spettatore a riconoscere di trovarsi in un teatro, dove gli attori devono parlare a giustificazione della propria e altrui presenza.
La commedia è fitta di gags che discendono direttamente dal teatro di varietà e dalle comiche del cinema muto. Ma è una comicità che assume connotati grotteschi e che si innesta sulla tragicità della situazione. Beckett stesso scrisse: “niente è più grottesco del tragico” e “niente è più comico dell’infelicità”. Se ridiamo dei personaggio non ridiamo per derisione: ridiamo dell’infelicità umana in quanto ridiamo della beffa più clamorosa di cui è vittima l’umanità, e cioè del fatto che, in ultima istanza, non è possibile cogliere un sentimento, uno scopo, una finalità nella nostra esistenza. In Beckett si trova esplicitamente l’eco di Leopardi e di Schopenauer. Da un lato c’è la consapevolezza della “infinità vanità del tutto” e la convinzione, come si legge nel suo saggio su Proust, che “la saggezza cosiste non già nella soddisfazione, bensì nell’ablazione del desiderio”. Dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa di essere nati. Per i personaggi di Beckett, come per la “creatura” di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”.
Il suo pessimismo è per molti insostenibile e spiega il rifiuto di parte della critica, ma spiega altresì l’adesione senza riserve in T. W. Adorno, che trovava nell’opera di Beckett una puntuale conferma della sua concezione per cui l’opera d’arte dell’età contemporanea non poteva far altro che dichiarare la negatività del presente e avere una sua positività proprio nella dichiarazione del negativo. La negatività di Beckett non è un pessimismo ripiegato, anzi, costituisce un antidoto contro il cinismo, il materialismo, l’avidità della nostra epoca. La negazione beckettiana ci costringe in qualche modo a ripartire da zero, a ripensare al senso –o meglio, all’assenza di senso- del mondo in cui viviamo alla luce della sua laica spiritualità.
Beckett applica una costante riduzione dei mezzi drammatici, tesa verso l’immobilità e il silenzio, verso l’impossibilità del teatro stesso. “non c’è niente da dire… eppure bisogna dirlo”.
L’Irlanda di Bacon e Beckett: Situazione storica
Per quanto sia Samuel Beckett che Francio Bacon abbiano preferito l’esilio dall’Irlanda per gran parte della loro vita, sicuramente non poterono essere indifferenti a ciò che accadeva nel loro paese d’origine. Risulta perciò quantomeno interessante fare un excursus su uno dei più significativi eventi del Novecento irlandese: la cosiddetta “Bloody Sunday”
In Irlanda del Nord a partire dalla fine degli anni ’60 il clima politico era divenuto assai violento a seguito del conflitto che opponeva i sostenitori dell’appartenenza della provincia al Regno Unito ai fautori della riunificazione dell’Irlanda. I primi, detti unionists, nome in genere usato per indicare i protestanti della classe media, o loyalists, nome usato per indicare i protestanti della working class, erano protestanti o di nascita protestante, discendenti dei coloni britannici giunti in Irlanda a partire dal XVI secolo, e costituivano i due terzi della popolazione nordirlandese. I secondi, detti nationalists o republicans (secondo le differenze di classe già viste per i protestanti), erano cattolici o di nascita cattolica, discendenti degli antichi irlandesi, ed erano il restante terzo della popolazione ma anche la grande maggioranza sull’intera isola. Da secoli gli unionisti detenevano il monopolio del potere politico e la gran parte delle risorse economiche, emarginando i cattolici. Nel 1970 l’organizzazione indipendentista irlandese IRA (Irish Republican Army) aveva cominciato una intensa azione di guerriglia contro l’esercito britannico e la polizia nordirlandese, ritenuti difensori dello status quo e schierati con gli unionisti. Dal canto loro le formazioni armate unioniste facevano fuoco sui cittadini cattolici non riuscendo a individuare i membri dell’IRA. La vita civile era ulteriormente sconvolta dagli scontri di piazza che opponevano i giovani protestanti e cattolici, e questi ultimi ai reparti antisommossa dell’esercito britannico e della polizia.
Fra le tante norme speciali emanate dal governo unionista di Stormont (la sede del parlamento nordirlandese) per cercare di far fronte ad una situazione sempre più difficile, una in particolare aveva suscitato sdegno e opposizione tra i cittadini cattolici nazionalisti ed era quella che prevedeva l’internment, ovvero la possibilità per le forze di polizia di internare una persona a tempo praticamente indefinito, solo con l’ approvazione del Ministro degli Interni dell’ Irlanda del Nord, senza processo. La situazione era tale che già centinaia di nordirlandesi in gran parte repubblicani si trovavano in carcere senza alcuna prospettiva di essere rinviati a giudizio oppure rilasciati.
A Derry, Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972, il 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico aprì il fuoco contro una folla di manifestanti per i diritti civili, colpendone 26. Tredici persone, la maggior parte delle quali giovanissime, furono colpite a morte, mentre una quattordicesima persona morì quattro mesi più tardi per le ferite riportate. Due manifestanti rimasero feriti in seguito all’investimento da parte di veicoli militari. Molti testimoni, compresi alcuni giornalisti tra i quali l’italiano Fulvio Grimaldi, affermarono che i manifestanti colpiti erano disarmati. Cinque vittime inoltre furono colpite alle spalle.
La prima conseguenza della strage fu che nei quartieri cattolici di Derry e di altre città nordirlandesi c’era la fila per unirsi all’ IRA tanto che l’ organizzazione ebbe dei problemi ad assorbire tutte le reclute.
Londra richiese al Primo Ministro nordirlandese, il protestante unionista B. Faulkner, i poteri in materia di ordine pubblico e giustizia, ma al rifiuto di questi emanò una norma (detta "direct rule", governo diretto) con la quale scioglieva il governo e il parlamento locali ed agiva direttamente, accrescendo ulteriormente da un lato la tensione e dall’altro i poteri dell’esercito e della polizia.
Una commissione d’inchiesta governativa, affidata a Lord Widgery, fu nominata per valutare i fatti del Bloody Sunday, ma non comminò condanne ad alcuno, accogliendo la tesi della difesa dei militari secondo la quale questi avrebbero risposto al fuoco, non avrebbero quindi attaccato per primi; in pratica, dell’accaduto, che quasi unanimemente è definito "strage", non furono rintracciate responsabilità penali. Sembra invece sempre più certo che nessuno dei dimostranti fosse armato.
L’ESTETICA DEL DISFACIMENTO IN BACON E BECKETT
Dove sta la vicinanza tra Bacon e Beckett? Secondo Kundera, sta nella medesima reazione di fronte alla caduta delle illusioni, alle due guerre mondiali e alla situazione irlandese nel Novecento. “Quando si vive la fine di una civiltà (come Bacon e Beckett pensano di vivere)” scrive egli, “l’ultimo brutale confronto non è quello con una società, uno Stato, una politica, ma con la materia fisiologica dell’uomo”.
Nel monologo Non io Beckett costruisce l’azione scenica non a partire da una situazione, ma da un’immagine. E l’immagine è quella di un’unica parte del corpo, una bocca, illuminata violentemente da un faretto, da cui esce un profluvio di parole, incomprensibile all’inizio, e torrentizio anche quando i vocaboli indistinti prendono forma e struttura di frase. La voce appartiene a una donna anziana, il cui monologo martoriato ci lascia intuire una vita di solitudine agghiacciante e di sofferenza psicologica insostenibile. Ha passato un’esistenza in silenzio, soltanto poche parole una o due volte l’anno; poi improvvisamente, a settant’anni, un mattino d’aprile, ha sentito irresistibile il bisogno di parlare; un fiume di parole è uscito all’improvviso dalla sua bocca, con la stessa irruenza inconsulta che caratterizza ora il suo monologo.
Il personaggio, che viene chiamato Bocca, sta tutto nelle parole che pronuncia, nella furia con cui le pronuncia, nella modalità con cui comunica il senso della propria condizione angosciosa, scaricando una valanga di suoni contro il silenzio di un’intera esistenza. Il personaggio e la sua storia sono le sue parole, sono la bocca da cui escono: è per questo che nel buio della sala il riflettore illumina e ci fa vedere solo quella porzione di volto: la bocca è la visualizzazione della condizione esistenziale e del tormento del personaggio.
Scrive Nadia Fusini: “A uno sguardo disarmato si offrono, nel suo teatro, visioni di cose morte che penetrano; è come un supplizio, dove le bocche aperte non gridano, ma stanno sempre per gridare. Ciò che resta della bocca si apre, si torce, e alla fine escono con furia lunghe frasi silenziose. Si legga Not I. E’ tutta un’animazione meccanica che trionfa nell’immobilità coatta; un’evacuazione di parole che non cessa, torrenziale; un supplizio appunto per la bocca, che vorrebbe chiudersi, riposare… Il cervello implora la bocca di cessare, ma non è sua, dice la bocca, la voce che la occupa. La donna non può fermare il cervello che inveisce contro la bocca impazzita che parla. Come in un dipinto di Bacon, dalla bocca qualcosa sprigiona che strazia la comunicazione, l’espressione, la forma. E’ un germinare patetico che fa perno intorno a un bordo, un orlo, un taglio- che funzionano come una specie di matrice logica della forma. È grazie a questo taglio che l’invisibile si immagina, e l’indicibile si arrende anche se mal detto al dicibile. La parola per Beckett, come il volto per Bacon, sorgono così: come una traccia, il tracciato visibile, udibile di un’emozione. Luce, colore, profondità, sonorità, esistono nelle cose solo perché risvegliano un’eco nel mio corpo”.
In Bacon il corpo si sforza, o meglio attende. Esemplare è Figure standing at a washbasin dipinto nel 1976: aggrappato all’ovale del lavandino, incollato con le mani ai rubinetti, il corpo-figura si costringe a un intenso sforzo immobile per poter fuggire, passando tutto attraverso il tubo di scarico. L’intera serie di spasmi è in Bacon di questo genere: amore, vomito, escremento; regolarmente il corpo tenta di fuggire attraverso uno dei suoi organi per raggiungere la campitura, la struttura materiale. Il grido è l’operazione attraverso cui l’intero corpo fugge dalla bocca, a cui tendono tutte le spinte del corpo.
Per fare un’ulteriore passo nel concetto di bocca in Bacon bisogna attraversare la sua idea di corpo come carne macellata. Per Bacon il pittore è un macellaio, certo, ma sta nella sua macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come crocifisso. Egli stesso dice: “Le immagini di mattatoi e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano direttamente legate alla Crocifissione. […] Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale”. La carne macellata non è carne morta, essa ha conservato tutte le sofferenze e ha assunto tutti i colori della carne viva. Tanto dolore convulso e vulnerabilità, ma anche affascinante invenzione, colore e acrobazia. Bacon non dice “pietà per le bestie”, ma ritiene piuttosto che ogni uomo che soffre sia carne macellata. E allora la bocca diventa ciò che Bacon chiama: il Grido nell’immensa pietà che travolge la carne macellata.
Ma questa non è ancora l’ultima parola nella serie della bocca secondo Bacon. Egli suggerisce che oltre al grido c’è il sorriso, al quale, a quanto dice, non ha potuto accedere. I sorrisi di Bacon mostrano affinità con il sogghigno del gatto in Alice in wonderland, sono sorrisi cadenti, inquietanti, isterici, come acidi in funzione dei quali il corpo si corrode e il volto si dissipa.
Entrambi esplorano un soggetto scorticato vivo, invaso da fantasmi: le opere di Beckett sono il prodotto di uno strenue sforzo di volontà contro il proprio sé invasato che si ingorga in un’attività mentale che occlude la lingua, ogni quadro di Bacon è un ecce homo. Per entrambi il male viene dall’atto stesso del vivere, del respirare, dell’ingoiare, perché, portando alle estreme conseguenze il carattere negativo della possibilità kierkegaardiano, essi intendono il vivere in sé come una castrazione, nel passaggio dagli infiniti possibili all’evento dell’impossibilità, in quanto impossibile è la realtà, a guardarla bene. È per questo che Beckett sceglie di passare per lo zero assoluto: un senso forse apparirà, quando sapremo fare silenzio; per questo Bacon non può che considerare la creazione come un atto di distruzione: un volto e una somiglianza forse si mostrerà quando, distrutto ogni contorno, una somiglianza umana affiorerà come da una macchia di Rorschach.
La negazione che accomuna entrambi, è in realtà il medesimo tentativo fallito di riappropriazione della realtà. Fallimento che si esprime nel rifiuto di narrare: le pièce beckettiane non hanno nessuna trama precisa, sono una successione di scene senza inizio e fine, in cui non accade nulla, come una porta aperta sulla banalità del vivere. Allo stesso modo Bacon disegna figure isolate per esorcizzare il carattere figurativo, illustrativo, narrativo della pittura. La pittura non ha né modelli da rappresentare, né storie da raccontare, e ha solo due vie per sfuggire al figurativo: verso la forma pura, per astrazione; oppure verso il puro figurale, per isolamento, attenendosi al fatto.
“Non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, né potere di esprimere, né volontà. Ma rimane l’obbligo, il dovere di farlo” dice Beckett. Beckett scrive per fallire, non per riuscire, e ciò significa per lui soccombere all’inesprimibile. Eppure scrive. Scrivere è uno sforzo inumano contro la sua stessa postura naturale, che è quella di Belacqua, nel quarto canto del Purgatorio dantesco. Belacqua sta “all’ombra, dietro al sasso”, siede e si abbraccia le ginocchia. Come Belacqua, Beckett percepisce l’inutilità del proprio sforzo: “L’andar su che mi porta? Che non mi lascerebbe ire a’ martiri l’angelo di Dio che siede in su la porta.” L’espiazione è semplicemente l’attesa che la fine venga e la partita si chiuda. Beckett decide, scrivendo, di porsi in modo attivo rispetto alla sua dannazione, ma, cancellata la speranza, la memoria, la lingua, fa oscillare tutta la realtà sul Nulla. Un Nulla reale, non assoluto, un’ oscillazione tra vita e morte, che porta ad un interminabile morire e un impossibile vivere.
Forse è nella medesima postura che vi è una risonanza tra Bacon e Beckett? Billie Whitelaw, attrice che a più riprese collaborò direttamente con Samuel Beckett, in un’intervista afferma: “La camminata in Passi, per esempio: non si tratta semplicemente di sette o nove passi dipendenti dalle dimensioni del palcoscenico, non è solo questo. In realtà mi sono storta la spina dorsale facendo Passi, proprio perché succede qualcosa per cui la mia spina dorsale si abbassa progressivamente con un movimento a spirale, come se mi stessi dissolvendo. (…) La forma che il mio corpo vuole prendere è quella di qualcuno che si sta muovendo a spirale verso il proprio interno”.
Non è forse quella stessa contorsione interiore che sembra animare i corpi di Bacon? Le sue carcasse discendono direttamente dalle ossa e, citando Deleuze: “Come in Kafka, in Bacon la colonna vertebrale non è altro che la spada che un carnefice ha fatto scivolare sotto la pelle del corpo di un innocente che dorme”.
Nasciamo soli. Nasciamo per caso e, per la nostra natura accidentale, viviamo nel caos. Come per la donna in Not I, è inteso che dobbiamo soffrire, perché nasciamo alla vita colpevoli. Sono ancora echi di Kafka, che accomunano i due in questo medesimo sentire: come K. , ne “Il processo”, accetta di essere accusato senza mai ribellarsi, come se in qualche modo sapesse di aver commesso qualcosa, e muore con negli occhi la domanda: “Qual è la mia colpa?”, così Vladimiro e Estragone sanno che potrebbero essere puniti da Godot, così la figura in Painting del 1978, col piede sulla chiave della porta, è in posizione ambigua: sta cercando di aprirsi o si sta chiudendo?
Quello che invece è certo è che i Three studies of Isabel Rawsthorne mostrano la figura nell’atto di chiudere la porta in faccia a una visitatrice o a un’intrusa, benchè si tratti del suo stesso doppio. Ciò che accade, o è già accaduto, o sta per accadere, ciò che compie Bacon sui suoi quadri non è uno spettacolo, ma uno scempio. Dunque non di uno spettatore c’è bisogno, ma di un testimone. L’uomo di Bacon è un uomo che si vergogna e che, colto nella sua nudità, viene bruciato nella carne viva da uno sguardo indiscreto e non può che difendersi puntando tutti i suoi sforzi in un movimento da cui viene reclusa e in cui viene reclusa. “Dimora con corpi. Ognuno va in cerca del suo spopolatore”, scriveva Beckett negli stessi anni.
E noi, come possiamo non sentirci parte attiva della violenza dei suoi quadri? Così come nasciamo alla vita colpevoli, così stiamo di fronte alle opere di Bacon: colpevoli, perché è vergognoso guardare nel modo in cui guardiamo. Bacon si sente come i centurioni ai piedi della croce, per la salvezza dei quali Cristo crocifisso, emblema laico dell’ingiustificata violenza umana, prega Dio con le parole: “Perdonali, perchè non sanno quello che fanno”. Bacon non sa quello che fa quando crea, sa solo che qualcosa “accade” e che “si uccide ciò che si ama”, perciò preferisce lavorare con fotografie, per poter compiere lo scempio in privato, senza che la presenza della persona cara lo possa inibire.
Una precisazione è qui da fare: per giungere alla creazione l’artista ha una sola volontà: seguendo gli insegnamenti di Schopenauer, l’artista vuole non volere, perchè “nell’abbandono di essa (la volontà) ha scoperto un senso del fare più elevato di ogni laborioso industriarsi e agitarsi intorno alle cose. (…) Lavora come un invasato. Si tratta di versare sulla tela ciò che lo invade; perchè lui è come un vaso dove si raccolgono emozioni, e dentro l’emozione che prova c’è già l’immagine”.
Importante e problematico è anche il ruolo dell’ascoltatore in Beckett, in particolare nel periodo che va da Non io a Improvviso dell’Ohio, cui Katherine Worth ha dedicato un saggio.
In Non Io Bocca e l’Uditore sono entrambi collocati nello stesso vuoto misterioso: l’Uditore sta su un podio invisibile, quattro piedi al di sopra del livello del palcoscenico. Ma per quanto sia distante da Bocca, eviterebbe volentieri quei suoni dolorosi che non può fare a meno di sentire. Dall’inizio alla fine, l’Uditore è “teso verso Bocca”. L’attenzione non si allenta mai, e, nonostante la distanza di “sicurezza” che li separa, vi è un legame emotivo, perché ogni volta che Bocca si rifiuta di raccontare la storia dell’orfana in prima persona piuttosto che in terza- “…cosa?…chi?…no!…lei!..”- l’Uditore compie il significativo movimento di alzare e far ricadere le braccia; il che, ci dice Beckett, è “un gesto di impotente compassione”. C’è qualcuno che ascolta; c’è qualcuno che giudica, fa una diagnosi: forse uno psichiatra, un esaminatore, un prete. Che sia guaritore umano, giudice angelico, archetipo junghiano, ci si potrebbe chiedere se ciò sia di qualche conforto. A cosa serve avere un Uditore “incapace di aiutare”, anche se compassionevole?
Meglio che non aver nessuno, forse; meglio in definitiva avere un testimone, che la sofferenza venga registrata e fissata, come sanno fare gli artisti. Per certi aspetti l’Uditore si può considerare davvero un surrogato dell’artista; Bekett si ispirò al dipinto di Caravaggio La decapitazione di S. Giovanni Battista, dove, “un gruppo in ombra nello sfondo osserva l’esecuzione”.
Come in Bacon spesso l’attendant è il doppio della Figura, così in Non Io si ha l’impressione che l’Uditore debba essere collocato all’interno di una psiche divisa. Dopo tutto, da quale altra parte possono provenire i pensieri e le domande che fermano Bocca di tanto in tanto, costringendola ad affrontare quelle verità che cerca a tutti i costi di evitare? Se fosse in grado di dire “io”, potremmo immaginare che la separazione tra Bocca e Uditore cesserebbe ed un nuovo essere unitario emergerebbe, capace di vedere, al di là del dolore della sua vita, quella dimensione più libera prefigurata nell’immagine lirica del mattino d’aprile e del campo dove la donna vicina ai settant’anni raccoglieva primule. La presenza dell’Uditore suggerisce che la possibilità di liberarsi è sempre presente, anche se Bocca nella pièce non vi riesce.
Ecco perché “gli oscuri drammi di Beckett sono in realtà drammi di luce, dove questi oggetti di disperazione attestano il desiderio feroce di volere testimoniare la verità. Beckett non si compiace di dire “no”, ma forgia quelle negazioni impietose dalla nostalgia del “sì”. La sua disperazione, quindi, è il negativo in cui si possono cogliere i profili del suo opposto”. Così scrive Peter Brook, il quale, ne “Lo spazio vuoto”, inserisce l’esperienza beckettiana nella categoria del Teatro Sacro.
Allo stesso modo Bacon, nel suo togliere, dis-fare, corrodere la Figura, confessa che gli piacerebbe se nei suoi quadri restasse l’impronta della presenza umana- una specie di bava, come quella che la lumaca lascia passando. Scrive Nadia Fusini: “In ogni modo Bacon vuole segnare la presenza umana anche nella sua dimensione di errore e disordine, come in una stanza ci accorgeremo di chi vi è passato, riconoscendo da un lieve scompiglio l’irruzione dell’altro”. Questa presenza, questo sì, negato, scacciato, eppure di cui si sente la mancanza, è ben rappresentato dal protagonista di Molloy, il quale, non ricordandosi il nome della madre la chiama Mag, come se la “g” fosse la lettera più adatta a distruggere la sillaba “ma”, ma allo stesso tempo egli potesse soddisfare così il bisogno ancestrale di chiamare qualcuno: mamma. Non è sterile pessimismo quello che insegue Bacon, come lui stesso dice in una conversazione con Archimbaud:”La violenza che apre su qualcosa è rara, ma alle volte è ciò che può verificarsi in arte; le immagini fanno esplodere il vecchio ordine, e nulla rimane come prima. (…) Il mio non è l’ottimismo del credente, si tratta del piacere che alle volte ti prende per il fatto di essere vivo, l’eccitazione di realizzare qualcosa”.
Scrive ancora Brook: “Quando ci scagliamo contro Beckett per il suo pessimismo, diventiamo noi i personaggi intrappolati nella scena beckettiana. Il pubblico di Beckett non solleva barriere intellettuali, non tenta di analizzare a tutti i costi il messaggio, ma ride, grida la sua protesta e, alla fine, celebra insieme a lui”.
Per quanto fosse sicuramente più consapevole della portata simbolica dei suoi drammi di quanto usasse ammettere, lo scopo finale di Beckett non è compiere un operazione intellettuale. Come sottolinea Gontarski, quando l’attrice che recitava Bocca nella produzione del Lincoln Centre negli anni ’70, si lamentava del fatto che i diciotto minuti stabiliti con precisione da Beckett come durata di Non Io, rendevano la pièce incomprensibile, Beckett rispose: “Non sono minimamente interessato all’intelleggibilità. Spero che la pièce possa agire sui nervi degli spettatori, non sul loro intelletto”.
L’espressione di Brooke molto ricorda ciò che scrive Nadia Fusini: “ Bacon è un artista disperato, e perciò può ridere, o piangere dell’uomo, e presentare il suo destino com’è, comico, o tragico a seconda del giorno, a seconda della fugacità stessa dei nostri sentimenti, dell’inconsistenza delle nostre teorie”.
Ed è anche più evidente che anche lo scopo di Bacon sia quello di toccare i nervi vivi, senza più nemmeno la pelle lì a proteggerli.
Da sottolineare per entrambi è la “vis comica”, la capacità di ridere della vita, con “ottimismo disperato” e esilarante disperazione: “un’energia che non teme di frugare in quella terra di nessuno dove l’angoscia e la disperazione si mescolano alla bestemmia, al riso, allo sberleffo, al ridicolo stesso”.
In conclusione, è importante sottolineare come Bacon abbia sempre negato qualunque somiglianza con l’opera beckettiana, e certo, i due artisti, per mezzi, sensibilità e tematiche non possono essere accostati genericamente. Come spiega Nadia Fusini: “Di altro credo si tratti: di affinità nel gesto e nella postura con cui un uomo, un artista, si colloca nel mondo e rispetto alla propria arte. Affinità, del resto, che solo altri possono vedere, perché non sono volontarie, ma riprese inconsapevoli, oggettive ripetizioni e ritorni che si mostrano all’occhio e all’orecchio di chi si disponga ad raccoglierle. (…) Allora una cosa ce ne ricorda un’altra, un volto ci riporta a un altro: intravediamo un pattern, uno schema; o percepiamo un ritmo. È un attimo. Poi si re-impone la differenza, e con essa l’inevitabile, la giusta misura della dissonanza”.
E’ a partire da questa premessa che ho inseguito le assonanze che mi portavano da un libro all’altro, da un’opera all’altra, cercando di cogliere quell’attimo in cui il tempo dei passi, con cui due dei più grandi artisti del secondo novecento hanno portato fino in fondo la propria strada, seguono lo stesso ritmo.