Perché Hitler si è suicidato?

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Sentite cosa dice Joachim Fest, il biografo di Hitler: <<Sono trascorsi sessant’anni dal suicidio di Adolf Hitler nel bunker della Cancelleria, a Berlino, ridotta in macerie e già in mano all’Armata Rossa

. Sessant’anni ci separano da quel tetro banchetto della morte che culminò nel suicidio del tiranno. Sessant’anni da quell’orgia della volontà di distruzione sono un anniversario tondo, tempo di riconsiderazioni, di ricordi e di bilanci. Rivisto oggi, con gli occhi della memoria dell’Europa, il suicidio di Hitler potrebbe apparire una fuga dalle sue tremende responsabilità, una fuga dal presente e dal giudizio dei contemporanei, dalla storia e dal futuro. Ma non fu così. Assolutamente no. Quando in quel fatidico 30 aprile del 1945, mentre pochi metri sopra il bunker i carri armati di Zhukov e le truppe scelte di Koniev avevano in pugno Berlino, Hitler decise di togliersi la vita, non fu mosso da coscienze di colpa, né temeva il giudizio del mondo. Hitler si suicidò, nel bunker affollato di gerarchi e di profughi, in un gesto estremo di coerenza con il suo darwinismo sociale, con la sua Weltanschauung (visione del mondo, ndr) e la sua filosofia della storia. Si suicidò perché si vide sconfitto con tutta la Germania, si sentì condannato al destino dei deboli, dei popoli inferiori, delle razze inferiori. E’ quasi come se, togliendosi la vita insieme alla sua Eva, egli avesse riletto e riscritto le pagine del Mein Kampf. La storia, egli scrisse, è fatta dai popoli forti e vincitori. I deboli, i perdenti, non hanno diritto alla vita, né alla compassione o alla pietà. I deboli vanno sradicati, devono sparire dal mondo. Una filosofia spietata, le cui conseguenze egli non volle risparmiare a se stesso e al suo popolo>>.  

<<L’idea del suicidio non gli venne in quelle ultime ore nel bunker. Anni dopo, illustri sopravvissuti come Albert Speer me lo confidarono, quando li consultai per redigere i miei libri: Hitler fu sempre un candidato al suicidio per eccellenza. Più volte aveva minacciato il suicidio. Nel novembre del 1932, poco prima della vittoria elettorale che lo portò al potere, disse “o il Partito mi segue come un uomo solo, o mi ucciderò”. Accettava solo il suo trionfo personale e il trionfo della Germania come unica potenza mondiale, o il suo suicidio e la catastrofe assoluta del Paese. Si respirava un’atmosfera cupa, sinistra, e anche paradossale, nel bunker. Eppure non fu quella la spinta determinante nell’indurlo a togliersi la vita. “Era chiaro a noi tutti da anni prima”, mi disse poi Speer, “dai lunghi consulti al Quartier Generale, che il Fuhrer accettava solo il trionfo o il suicidio”. Hitler era un grande attore, un maestro nell’inscenare se stesso e la sua vita, e al tempo stesso prese estremamente sul serio la sua parte. Dai congressi del partito nazista con la loro scenografia trionfale, fino alla conferenza di Monaco, egli seppe sempre mettere in scena la sua vita. Sapeva che era una messa in scena: proprio a Monaco, nel 1938, si abbandonò a uno sfogo con i suoi intimi. Maledisse l’accordo con Londra e Parigi che sacrificando la Cecoslovacchia aveva allontanato la guerra. “Chamberlain e Daladier mi hanno guastato la festa della guerra”, disse. Con la stessa freddezza, confessò nel bunker che non se la sentiva di piangere una sola lacrima sulla sorte del popolo tedesco: si era mostrato debole e inferiore, meritava l’annientamento>>.  
 
<<L’Hitler degli ultimi giorni era anziano, indebolito, logorato dalla malattia. A volte si trascinava quasi barcollando nei corridoi del bunker. Il 22 aprile, ebbe uno dei suoi scatti d’ira più terribili. I tentativi dei suoi fedelissimi, guidati dallo Obergruppenfuhrer delle SS Felix Steiner, di lanciare contrattacchi per disimpegnare il fronte attorno a Berlino, erano miseramente falliti. Koniev e Zhukov, “il fioretto e la spada di Stalin”, si contendevano la presa della capitale del Reich come due rivali a caccia di successo. Da Neukolln alle ville di Zehlendorf, da Tempelhof a Gatow, il fronte cedeva strada per strada ai russi. Invano reparti SS, e gruppi di anziani e bambini del Volkssturm, si ostinavano in una resistenza disperata. “E’ finita, non mi resta che togliermi la vita”, disse in preda alla collera. Poi ritrovò la sua calma fredda e spietata che non lo lasciò più in quell’ultima settimana di vita. “Ma non mi lascerò catturare e condurre sbeffeggiato in pubblico come un nemico prigioniero e umiliato, non mi lascerò trascinare alla berlina per le vie di Mosca in una gabbia da scimmie”, disse. Ecco: questo sì era il suo grande, unico timore in quelle ore. Le notizie venute dall’Italia, Mussolini fucilato e poi appeso per i piedi al pubblico ludibrio in piazzale Loreto, lo avevano profondamente scosso. Gli avevano fatto provare qualcosa come la paura. Non certo senso di colpevolezza. Nei suoi ultimi decreti, quando, dopo un altro scatto d’ira furibonda, ordinò a Bormann e a Goebbels di esautorare e far arrestare gli incapaci ed infedeli Goering e Himmler, protestò la sua assoluta innocenza davanti alla storia. Se la prese con gli statisti di tutto il mondo, ebrei o servi degli ebrei e della plutocrazia anglosassone. Gli ebrei e i plutocrati anglosassoni per lui erano il Male, non la terribile guerra da lui scatenata. Giunse a ordinare misure di distruzione del Reich, di lasciare al nemico la Zivilisationswuste, la desertificazione della civiltà>>.  
 
<<Il mondo della sua sconfitta non valeva la pena di essere vissuto. Così pensava Hitler, così pensavano Joseph e Magda Goebbels che nel bunker uccisero col veleno i loro sei bimbi prima di togliersi la vita. Così ragionavano, a Berlino investita dalla furia vendicatrice dell’Armata Rossa, migliaia di tranquilli borghesi. Un noto medico comprò veleno per sé, la moglie e i tre figli. Ma perse tutte le fiale tranne due. Allora con la moglie annegò uno dopo l’altro i tre figli che invano, avevano 6, 4 e 3 anni, si dibatterono disperati nella vasca da bagno implorando mamma e papà di risparmiarli. Poi insieme alla consorte scrisse una lettera d’addio e bevve il veleno. Così era anche il clima nel bunker in cui pure tutti i gerarchi gli giuravano fedeltà eterna e si comportavano come persone che avevano ancora anni di vita davanti. Eppure sapevano che era questione di giorni. Il delirio d’agonia fu incarnato da Goebbels che seppe convincerlo a restare fino all’ultimo a Berlino a non fuggire in Baviera. “Il Fuhrer non può affrontare il nemico nella residenza estiva”. Si convinse, essendo ostinata a restare al suo fianco, anche Eva Braun che nel bunker ottenne di sposarlo. Per l’emozione, sbagliò la firma sul certificato di matrimonio. Entusiasti per le nozze del Fuhrer, decine di altre coppie nel sotterraneo si unirono a nozze. Nel bunker coesistevano tre stati d’animo. Lui era deciso alla fine, i suoi massimi collaboratori a seguirlo. Walter Hebel, Stumpfhegger, Krebs, si tolsero anche loro la vita. Come Bormann e i Goebbels. Ma molti altri, i pesci piccoli, i gerarchi minori, i profughi da Est ammassati nel sotterraneo, provavano ancora istinto di sopravvivenza, voglia di continuare a vivere. Hitler dettò le sue ultime volontà di resistenza fanatica e di distruzione e poi passò i poteri supremi all’ammiraglio Karl Donitz. Nominò un’intera nuova leadership, con Goebbels Cancelliere e Bormann Ministro per il partito. Chiese loro fedeltà fino alla morte. “Io e la mia sposa, furono le ultime righe del suo testamento, scegliamo la morte, per evitare la vergogna della capitolazione. E’ nostra volontà essere bruciati subito qui in questo luogo dove ho quasi sempre lavorato nei miei dodici anni al servizio del popolo tedesco”>>.  
 
<<Fanatismo lucido fino all’estremo, disprezzo della compassione e della vita. Così morì lui, ma non quella logica spietata. Quando a ogni telegiornale vedo notizie delle stragi d’innocenti che l’attentatore suicida di turno ha compiuto in un Kindergarten di Tel Aviv, in un discount di Kiryat Shmona, o nel centro di Bagdad o di Kabul, vedo rivivere la sua Weltanschauung. E mi dico che purtroppo l’illuminismo aveva torto, raccontandoci un genere umano ragionevole e portato per natura al bene>>  (AA. VV.
Hitler, un suicidio per sottrarsi alla storia. www.repubblica.it. Reperibile per via telematica. Vedasi anche: J. Fest. La disfatta. Garzanti, 2007>>. Il suicidio di Hitler fu la conclusione di un lungo sillogismo che la storia aveva riempito di orrori (H. Trevor Roper. Gli ultimi giorni di Hitler. BUR, 2000). Un fatto va, tuttavia, detto: il Fuhrer in tutta la sua carriera fu onesto e leale con pochissime persone e tra queste solo a due diede, a tutti i livelli, più di quanto ne ebbe in cambio: il primo fu Heinrich Himmler, il traditore capo delle SS e il secondo fu proprio Benito Mussolini il quale si associò a lui per puro interesse. Il duce dal Fuhrer ricevette, invece, un rispetto e un’amicizia autentici che andavano oltre le convenienze politiche e militari.  

Il Terzo Reich si chiude con un macabro ballo della corte nazista che brinda a champagne e si ubriaca mentre il capo e la sua amante, sposata nel bunker, si tolgono la vita. La caduta del fascismo è meno nibelungica. Prima di fuggire da Milano, i principali gerarchi hanno intascato grosse somme di denaro, il comandante della Guardia Nazionale Repubblicana, Renato Ricci, ha fatto in tempo a incassare in banca un assegno di quattro miliardi di lire e il Ministero degli Esteri ha spartito con gli altri Ministri grosse quantità di divise pregiate. Ma a piazzale Loreto e al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia di quel denaro (il famoso “oro di Dongo”) non arriverà mai una lira. E’ in buona parte finito nelle casse del partito comunista, il resto nelle tasche di ignoti che in quelle ore drammatiche riuscirono a unire l’utile al patriottico.