A cura di
Leone Silvano
Quando Albert Camus, nel 1947, pubblicò presso le edizioni francesi Gallimard il suo romanzo dal titolo “La peste” diede indubbiamente una nuova forma, un nuovo senso a parole spesso abusate quali separazione, amore, paura, solitudine,
un senso che ancora oggi riesce a colpire, per la sua attualità certamente e per la sua intrinseca poesia, il lettore di quella piccola opera di duecento pagine all’incirca.
Albert Camus, a prescindere da considerazioni personali, credo non sia possibile amarlo oppure odiarlo, credo sia possibile realmente solo rispettarlo, anche in opere davvero ostiche (“L’homme revoltée”, “Le mythe du Sisiph” per citarne un paio), ma rispettarlo con quel rispetto che è giustamente dovuto a coloro che sono riusciti a conciliare un profondo pensiero con una modo di scrivere nuovo, oltre che bellissimo.
Credo che oggi, in un’epoca nella quale l’alienazione regna sovrana e la paura del prossimo si accosta a ridicoli atti di carità farlocca, Camus sia lo scrittore più attuale che possiamo trovare in una libreria, a meno che non si voglia sentir parlare di Lolite alle prime esperienze sessuali (che vendono milioni di copie, a chi poi non si sa…!), oppure di amori idioti sigillati da lucchetti su ponti; insomma, Camus ci fa riflettere, meglio ancora, ci offre un’interpretazione del reale che ci induce alla riflessione, un’azione mentale che oggi è appannaggio realmente di pochi autori, logicamente ignorati dalla massa.
Lasciando perdere qualunque discorso sartiano su l’engagement, credo che “La Peste” sia il romanzo più adatto per comprendere non tanto alcuni fenomeni quali le varie malattie attuali (dall’HIV all’odierna febbre suina), quanto le reazioni a questi da parte della massa.
In “La Peste” Camus ci descrive la storia di Oran, cittadina algerina, colpita dalla peste, e la reazione a questa “nuova condizione” da parte dei suoi abitanti.
Premettendo che buona parte della produzione letteraria di Camus si basa sulla concezione di un esistenza basata sul paradosso, nella quale l’uomo vive, ma è condannato a morire senza una reale motivazione (l’assurdo), l’autore nell’opera in questione ci mostra in primo luogo come vi siano persone che, nonostante siano avvisate del morbo che invade Oran e semina morte fra loro, si ostinino, in un pecorismo feroce, a non credere alla realtà, a restare chiusi nella loro indifferenza e nel loro smodato perbenismo.
Come leggiamo in un’ottima guida alla comprensione di quest’opera: “The emphasis on the habits which have been formed and cultivated by the soulless people of Oran ore significant. Vital living can be stifled by habits: in Oran love making is relegated to the weekends. (…) Camus seems to be creating a society of habit-oriented people in order to confront them with death in its most horrible form – the plague. Then, from this confrontation, new values regarding lives will emerge. (…) And a snail’s shell of indifference and ignorance is hiding the townspeople and even Rieux’ colleagues from the truth (…)1”.
Il confronto con la morte e la sua fuga, fuga dal reale e dalle sue conseguenze, certamente, e dunque la reazione dell’uomo dinanzi alla malattia. Oggi, a fianco di piaghe decennali di nome HIV, cancro ed altre, il morbo si chiama influenza suina, influenza A, ieri SARS, domani avrà un altro nome.
Ciò che Camus ci induce a fare con questo libro è, piuttosto che una riflessione sul morbo, una riflessione sull’ombra di questo morbo, sulla solitudine che genera, sull’esilio di questa collettività dal mondo e sull’esilio del singolo in questa collettività.
Non è un caso che il primo capitolo del romanzo si apra con un ratto morto e si chiuda con la prima vittima della peste: l’assimilazione uomo – bestia comporta la coscienza dell’indifferenza generale, che il morbo, la peste non fa altro che far affiorare, venire a galla.
Cottard, il Dr. Rieux, Tarrou, non sono solamente i personaggi del romanzo, sono persone che possiamo incontrare ogni giorno, e che quotidianamente affrontano con la solita arma le odierne pesti: l’indifferenza, il perbenismo, non comprendendo che in tal modo si genera solamente un esilio forzato dell’uno verso l’altro, un’ipocrisia totale nel non dare credito ad un reale problema.
“La peste” di Camus ci espone la visione chiara di un uomo di metà novecento su un problema nascosto dietro un altro problema, illumina il lato oscuro della luna: non tanto la peste, quanto ciò che essa fa affiorare, la natura ipocrita e vile dell’uomo moderno, ed una sua possibile ed auspicabile rivolta.
Quanti guadagneranno dall’ondata di febbre suina ad esempio? E quante ghettizzazioni sono già in atto? Crediamo realmente che non sia mai stato possibile trovare un vaccino per piaghe quali l’HIV oppure non vi è stata piuttosto un’indifferenza generale che ha contribuito ad impedire di trovare il vaccino?
Ai posteri la facile sentenza.