Mussolini, Hitler ed il Sud Tirolo

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E’ meglio lasciare che accadano ingiustizie, piuttosto che rimuoverle commettendo illegalità

(J. W. Goethe)

Il regime fascista ha costituito un passaggio cruciale nella storia del ventesimo secolo sia in Italia che in Alto Adige. Le interpretazioni del ventennio mussoliniano, elaborate a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno da subito diviso gli storici ed i politici.

 Anche negli ultimi decenni lo sviluppo della cosiddetta storiografia revisionista ha offerto spunti di discussione e di polemica assai spesso molto accesi. Non vi è un altro periodo storico del ventesimo secolo che in Italia sia stato capace di dividere così tanto. Lo stesso può dirsi per il Sudtirolo, anche se qui i motivi del confronto storiografico nazionale hanno conosciuto solo un’eco parziale. Per molto tempo si sono consolidate storiografie “etniche” contrapposte, ma negli ultimi dieci anni la storiografia locale ha fatto enormi passi avanti sulla strada di un approccio non strumentale alla ricostruzione dell’epoca fascista, grazie al lavoro di storici di tutti i gruppi linguistici chiamati in causa.

Il 2 ottobre del 1922 ebbe luogo la cosiddetta marcia su Bolzano in seguito alla quale venne deposto il sindaco Julius Perathoner, da poco eletto democraticamente. Questo avvenimento fu visto come una sorta di prologo della “Marcia su Roma” (28 ottobre del 1922), quella che portò Mussolini alla nomina di capo del Governo. Il 15 luglio del 1923, nel teatro civico di Bolzano, Ettore Tolomei rese pubblico il suo programma di assimilazione e italianizazzione del territorio sud tirolese con la rieducazione politica-culturale degli abitanti di lingua tedesca. Il Tolomei poté vantarsi di un eccezionale successo politico, presentandosi sul suo Archivio personale come “padre del confine al Brennero”. Per le sue eminenti benemerenze verso la Patria, il re lo nominò Senatore del regno il 1° marzo del 1923. Il 15 luglio del 1923, un suo memorabile discorso al Teatro Civico di Bolzano iniziò con un entusiastica frase: “Camerati fascisti! Spunta l’alba radiosa di una nuova epoca, oggi inizia a Bolzano l’Era Fascista”. Il fascista bolzanino ebbe un precursore nell’irredentista Adriano Colocci-Vespucci. Già prima della grande guerra costui disse al Tolomei: “La soluzione migliore per risolvere il problema della minoranza in Alto Adige è quella di ricacciare in massa i tedeschi oltre il Brennero”. Il re d’Italia Vittorio Emanuele III, nel discorso alla corona del 1 dicembre del 1919, dichiarò il pieno rispetto delle autonomie locali e delle tradizioni eterologhe. Ma le successive trattative per garantire alla regione sudtirolese un’ampia autonomia etnica naufragarono a causa dell’opposizione dei gruppi nazionalistici a capo dei quali vi era per l’appunto il fascista Ettore Tolomei. Nell’aprile del 1921 si ebbe la prima aggressione fascista a Bolzano. Una squadra fascista assalì un corteo in costume tirolese, uccidendo Franz Innerhofer, maestro di Marlengo, senza che i responsabili fossero stati processati.

Il Governo italiano, e soprattutto il regime fascista, pensarono subito alla degermanizzazione del Tirolo del Sud (andando, invero, contro gli ideali dell’idea mazziniana e neoguelfa cattolica che aveva ispirato il Risorgimento) prima con la colonizzazione italiana e poi, d’accordo con Adolf Hitler e con il regime nazista, con l’espulsione dei cittadini di nazionalità germanica. A partire dal 1923 il fascismo concepì e in parte attuò un programma di integrazione linguistica regionale basato su interventi di politica scolastica e amministrativa (oltre che su una consistente immigrazione di italofoni da altre regioni). Il primo quotidiano dell’Alto Adige in lingua italiana uscì il 22 aprile del 1927. Nel giro di breve tempo s’impose come mezzo di informazione, raggiungendo circa 3000 copie al giorno di tiratura e divenendo così l’organo ufficiale del fascismo altoatesino. Negli anni si sono avvicendati alla direzione del giornale molti direttori che si trovavano a dover adempiere alle direttive fasciste volte alla diffusione dell’italianità a scapito del “dovere di cronaca”.

Nel 1924 viene italianizzata l’amministrazione comunale, l’anno seguente quella del diritto. Tutte le scritte pubbliche, compresi i manifesti, le insegne, gli orari dei treni e le tariffe dei locali pubblici, dovevano essere redatte esclusivamente in italiano. Dal 1927 anche le etichette dei medicinali venduti in farmacia erano compilate nella lingua ufficiale dello Stato. A partire dal 1926 ebbe inizio l’italianizzazione dei nomi propri, dei cognomi e dei titoli nobiliari: consapevole della pesante prevaricazione in ambito privato che tale intervento comportava, il fascismo manipolò la questione presentandola in termini di “legittimità” di reclamare un cognome italiano dopo secoli di dominazione austriaca. Per la toponomastica risultò determinante il capillare lavoro mirante alla totale italianizzazione dei nomi di luogo, dai più importanti a quelli dei villaggi e delle località non urbane. Non c’è mai stato grande feeling tra altoatesini e italiani (ammesso, e non concesso, che si possa parlare a ragion veduta di popolo “italiano”). “Troppo crucchi i primi e troppo terroni i secondi, secondo una vulgata che si è nutrita reciprocamente di stereotipi e luoghi comuni. Un luogo comunismo che ha radici antiche e che dall’inimicizia trascinatasi per quasi tutta la prima metà del Novecento si è poi diluita in una sorta di indifferenza reciproca. La storia delle province di Trento e Bolzano nella prima metà del Novecento è una realtà controversa e per molti aspetti sconosciuta, la cui complessità può essere riassunta nelle vicende di migliaia di persone, nate nell’Impero austro-ungarico, cresciute nell’Italia fascista e quindi costrette a combattere e morire, contro la propria volontà, per il Terzo Reich” >> (A. Frigerio. L’Alto Adige tra Asburgo, fascismo e nazismo. Storia in Network, 1 Dicembre, 2005. Reperibile per via telematica).

Il 20 febbraio del 1935 Mussolini, per favorire l’immigrazione italiana nella regione altoatesina, invitò le grandi industrie lombarde e piemontesi a creare delle filiali a Bolzano. Gli stabilimenti Lancia di Torino, le acciaierie di Milano e molte altre industrie accettarono l’offerta e diedero inizio alla produzione dei loro manufatti in Alto Adige. Migliaia di famiglie italiane s’insediarono in tutto il Sudtirolo, dove trovarono occupazione in fabbriche nuove nelle quali era proibita l’assunzione di lavoratori di lingua tedesca. Arrivarono migliaia di famiglie di operai, d’impiegati e di tecnici. Per accoglierle si costruirono nuovi quartieri, tra cui quello soprannominato dalle “case semirurali”.

L’avvento al potere di Hitler e del regime nazista in Germania (1933) sollevò entusiasmo e grandi speranze in alcuni circoli sudtirolesi, soprattutto in quelli giovanili. Nello stesso anno fu fondato il VKS (Völkischer Kampfring Sudtirols), un movimento di ispirazione nazionalsocialista. Tuttavia Hitler non era interessato a rivendicare il Sudtirol, bensì a coltivare l’amicizia e l’alleanza con Mussolini. Il duce, in nome della fratellanza italotedesca, permise, infatti, l’annessione (Anschluss) della Repubblica austriaca al cosiddetto Terzo Reich (1938). Il Brennero era diventato così la frontiera naturale tra le due Nazioni, entrambe soggette a dittature totalitarie, strettamente alleate da un vincolo decennale (il Patto d’Acciaio del maggio del 1939). La particolare attenzione del capo fascista nei confronti dei confini altoatesini si accentuò verso la fine degli anni Trenta. Le manifestazioni anti-italiane ad Innsbruck, gli orientamenti dichiaratamente filonazisti della popolazione di lingua tedesca in Alto Adige e la necessità di giustificare di fronte all’opinione pubblica italiana il disinteresse del Governo verso l’Austria minacciata dai nazisti, indussero quello fascista a premere affinché Berlino consentisse a rendere pubblica la lettera personale di Hitler a Mussolini (11 marzo del 1938) nella quale il Fuhrer s’impegnava a non mettere in discussione né ora, né poi la frontiera del Brennero. La lettera fu resa pubblica in Italia, ma non in Germania.

Non certo delle reali intenzioni di Hitler, Mussolini sollecitò la redazione e la firma di un patto d’intesa che toccasse direttamente la questione delle minoranze e che mettesse in luce i nuovi problemi sorti dopo l’Anschluss. Anche se il progetto italiano fu inizialmente deluso, qualche rassicurazione egli la ottenne il 7 luglio del 1938, quando, durante una visita a Roma, Hitler dichiarò che era sua intenzione e testamento politico riconoscere intangibile la frontiera delle Alpi eretta “naturalmente” fra le due potenze confinanti. Quest’intesa si concretizzò con la firma del Patto d’Acciaio del 22 maggio del 1939. Tutte queste rassicurazioni non furono però sufficienti a convincere il leader del fascismo. Fu sicuramente per questo motivo che in Alto Adige nel 1938 furono realizzati otto sbarramenti difensivi e ne furono progettati altri quattordici (il vallo Littorio o vallo del “non mi fido”). Nel suo libro Mein Kampf (1926) Hitler scrisse che “l’Alto Adige non valeva l’alleanza con l’Italia in quanto quest’ultima era (assieme all’Inghilterra) il naturale partner della Germania” (C. Medail. “Sud Tirolo agli italiani. Firmato Hitler. Corriere della Sera, 14 Agosto, 2003). Inoltre per risolvere il problema degli allogeni tedeschi in Italia, circa 200.000, il 21 ottobre del 1939 venivano firmati i Patti di Roma in base ai quali i cittadini italiani di cultura tedesca potevano optare per la cittadinanza germanica e trasferirsi oltralpe ben indennizzati, oppure rimanere in Italia senza alcuna pretesa irredentistica. E’ interessante notare che molti altoatesini, tutti fieramente nazisti, optarono liberamente per il Terzo Reich ed andarono in Germania, ma nel dopoguerra, per le ben note facilitazioni economiche ritornarono precipitosamente in Italia, si dissero vittime del nazifascimo e riscoprirono l’irredentismo austriacante.

Nel 1939, in Alto Adige la maggioranza della popolazione tedesca vide con speranza l’avvicinamento di Hitler al Brennero e quindi la possibile annessione della regione alpina alla grande Germania. Però l’atteggiamento di Hitler nei confronti dei sudtirolesi era ostile. Al dittatore tedesco interessava principalmente ottenere l’appoggio di Mussolini come alleato e dichiarò solennemente, già l’ho detto, che non avrebbe oltrepassato, con le sue truppe, il confine naturale del Brennero. Di conseguenza egli rinunciava a qualsiasi rivendicazione sull’ex Tirolo del Sud, dando credito alle aspettative nazionalistiche italiane per una definitiva soluzione del problema delle minoranze linguistiche nel nostro Paese. Il 23 giugno del 1939 venne firmato a Berlino, nel comando generale delle SS, l’accordo riguardante il trasferimento dei sudtirolesi nel Reich. Questo consisteva nella “libera” possibilità di scegliere (optare) entro il 31/12/39 se rimanere nell’Italia fascista, con l’obbligo di essere fedeli al duce, o di espatriare nella Germania nazista. Il 29 giugno la notizia divenne pubblica e un’ondata di costernazione invase la regione. Gli uomini raggruppati intorno all’ “Unione tedesca” e il gruppo di lotta popolare sudtirolese (VKS) erano d’accordo nel rifiutare l’opzione. Il 22 luglio il VKS però cambiò idea e si dichiarò disponibile a fare una scelta alternativa.

<<La popolazione sudtirolese si divise in due grandi correnti: i “Dableiber” e gli “Optanti”. “Dableiber” erano coloro che volevano rimanere fedeli alla propria Patria. Quelli invece che volevano essere trasferiti nel Terzo Reich erano gli “Optanti”. La propaganda pro e contro le opzioni fu intensa. I favorevoli all’espatrio intimidivano quelli che volevano restare nella loro terra, spargendo la voce di un possibile insediamento nelle colonie italiane in Africa o in Sicilia qualora avessero optato per rimanere in Italia. Taluni ritennero le opzioni una specie di consultazione popolare ostile all’Italia. Alcuni per rimanere nel loro territorio facevano riferimento ai loro avi che riposavano nei cimiteri, che tanto duramente avevano lavorato la terra per il bene dei loro figli e che per questo non poteva essere abbandonata. I rossi gerani in fiore che in Tirolo, secondo la tradizione, abbelliscono le finestre e i balconi delle case, sono chiamati “amore ardente” (brennende liebe) e simboleggiano il vincolo inscindibile con la propria terra. Molti scelsero l’emigrazione, ma altri rimasero nella propria Patria. Lo scopo principale di Mussolini era in realtà quello di liberarsi soprattutto della borghesia e degli intellettuali nordici filonazisti. Un piccolo gruppo di persone dell’ “Unione tedesca”, di cui faceva parte il canonico Michael Gamper, lottò contro l’opzione. Anche la maggioranza del clero ed un gruppo di giovani si dichiararono avversi. Il 31 dicembre del 1939 era scaduto il termine per le opzioni: 166.488 altoatesini avevano optato per la Germania, mentre 63.017 persone si erano opposte. Coloro che avevano dichiarato l’intenzione di rimanere nella loro terra vennero sottoposti a gravi manifestazioni di ostilità ed intolleranza, anche da parte dei loro stessi familiari>> (www.girovagandointrentino.it. Reperibile per via telematica).

<<Abbandonare la casa, la terra e la Patria per mantenere la propria identità  e continuare a parlare la lingua degli avi. Oppure restare, ma cambiare tutto e forse, alla fine, dover comunque lasciare ogni cosa per trasferirsi in un’altra parte d’Italia o addirittura in Africa. Il dramma degli abitanti del Sud Tirolo/Alto Adige al momento dell’intesa tra Hitler e Mussolini è cosa di cui si è sempre parlato poco e che può essere capita fino in fondo solo attraverso le testimonianze dei protagonisti. “Scorrono lacrime a torrenti, le notti vengono passate insonni, abbattuti giriamo intorno, incerti  dell’esecuzione di queste disposizioni…. Migliaia di lettere scritte in quel periodo, intercettate dalla polizia italiana, tradotte e conservate nell’archivio del Ministero dell’Interno, vengono ora pubblicate per la prima volta grazie al paziente lavoro della Fabbrica del Tempo, una associazione che si occupa di storia altoatesina (Le lettere aperte 1939-43: l’Alto Adige delle Opzioni). Lettere di italiani, documenti ufficiali, ma soprattutto missive di altoatesini di lingua tedesca o ladina, identificati dal fascismo come “allogeni” (di etnia diversa) e quindi sospetti per definizione. Il tutto accuratamente sorvegliato dalla polizia militare, dalle questure e dall’Ovra. Un’opera ciclopica, visto che, secondo il prefetto di Bolzano, venivano esaminate quasi trentamila missive al giorno. Passati dall’Impero asburgico all’Italia da pochi anni, traumatizzati dal regime che voleva italianizzarli, gran parte degli altoatesini, ingenuamente, guardarono in un primo momento con grande speranza alla politica espansionistica di Adolf Hitler: l’annessione dell’Austria e l’occupazione dei Sudeti in Cecoslovacchia>> (www.fabbricadeltempo.it. Reperibile per via telematica).

Benito Mussolini aveva rilanciato l’Italia, alimentando il “Mito del fascismo”. Era a quel modello che si era ispirato Hitler quando aveva intrapreso la propria ascesa politica. Ecco perché non si sarebbe mai messo contro l’amico-maestro di Roma. Allorché Hitler parlò per la prima volta di Austria, Mussolini aveva immediatamente mobilitato quattro divisioni e le aveva mandate al confine italiano con la Repubblica austriaca. Messaggio chiaro e forte che Hitler comprese perfettamente. Il Duce non era certamente uno sprovveduto. Non voleva che un Paese grande e potente come la Germania portasse le proprie frontiere a ridosso delle nostre. Sicuramente prima o poi avrebbe messo gli occhi sui tedeschi del Sud Tirolo…E dato che il cancelliere di Vienna, Engelbert Dollfuss, era un fascista amico personale del duce, non aveva perso un solo minuto per mostrare i muscoli a Hitler. Quando Engelbert Dollfuss venne assassinato dai nazisti, Mussolini ordinò che quattro divisioni  di soldati raggiungessero il Brennero (“L’Italia vigila con l’arma al piede”, fece intitolare i giornali).“L’indipendenza dell’Austria per la quale egli (Dollfus, ndr) è caduto, dichiarò Mussolini, è un principio che è stato difeso e sarà difeso dall’Italia ancora più strenuamente”. Il duce poi annunciò al mondo (a Hitler) che  “L’Austria non si tocca” e fece sostituire nella piazza di Bolzano la statua di un trovatore germanico con quella di Druso. E’ questo il momento di maggior attrito tra il fascismo ed il nazionalsocialismo tedesco. Lo stesso Mussolini scese più volte in campo per ribadirne le differenze.

Tutto l’Alto Adige nel corso dei secoli ha subito opere alterne di italianizzazione e di germanizzazione. La questione altoatesina nasce con il trattato di Saint-Germain en Layne del 1919. L’Italia, uscita vincitrice dalla prima guerra mondiale, intendeva garantirsi un confine storico e naturale che la difendesse dall’Austria. Da allora il confine è rimasto sempre invariato. La politica del fascismo riconobbe i diritti della popolazione italiana sudtirolese. Procedette ad una politica di italianizzazione, favorendo l’emigrazione della comunità di lingua tedesca. Fece salire il numero degli italiani residenti in Alto Adige dalle 10 mila unità del primo dopoguerra a circa 110 mila nel 1946. Come anzidetto, nel 1938 Mussolini, d’accordo con Hitler, tentò una soluzione radicale della questione altoatesina, chiedendo ai cittadini di etnia tedesca di optare tra le due nazionalità: chi avesse rifiutato la cittadinanza italiana avrebbe dovuto trasferirsi nei territori del Reich. Come sappiamo, si registrarono circa 150 mila opzioni per la nazionalità tedesca, a cui seguirono solo circa 60 mila emigrazioni effettive e definitive. L’ “opzione” passerà alla storia come un grande trauma per la popolazione dell’Alto Adige. Si spaccava la società , le famiglie si dividevano e i “non optanti” venivano additati come traditori.

In Alto Adige c’è il bilinguismo perché durante il fascismo è stata portata avanti una intensiva operazione di italianizzazione, in alcuni casi addirittura forzata. Tanto per dire le cose dalla A alla Z fu costruito anche un bel campo di concentramento fuori Bolzano. Tutti furono obbligati a imparare l’italiano, anche quelli che fino a quindici anni prima erano cittadini dell’Impero austro-ungarico! Oggi a Bolzano il 70% dei cittadini sono di lingua italiana, ma fuori città il 95% della gente parla ancora il tedesco. Sulla scia del nazionalismo del Tolomei si proibì l’uso della lingua tedesca nelle scuole altoatesine, mentre i toponimi vennero sostituiti da denominazioni italiane frutto in diversi casi di pura fantasia.  Dal 1925 comparvero paradossalmente le cosiddette “scuole delle catacombe” in cui le lezioni in lingua tedesca erano impartite ai bambini di nascosto, a volte da insegnanti improvvisati. I pubblici dipendenti di lingua tedesca vennero licenziati e sostituiti da immigrati italiani trasferiti in Alto Adige. Si potenziò fortemente la zona industriale di Bolzano dove si stabilirono migliaia di operai reclutati nel Nord Italia. Il capoluogo fu oggetto di un ricco programma di edilizia. Giovani architetti vennero incaricati di creare la Bolzano italiana. Nacque un nuovo quartiere con strade eleganti e moderne ed edifici monumentali.

A coronamento del programma edilizio si realizzò il “Monumento della Vittoria” che intendeva ricordare l’annessione dell’Alto Adige all’Italia. Secondo i canoni del  regime fascista, l’Alto Adige avrebbe dovuto essere immerso in un “lavacro di italianità”: dalla lingua alla veste architettonica, fino agli stessi costumi di vita. Soprattutto le giovani generazioni sudtirolesi si trovarono in una situazione di lacerazione interiore: dover accettare una vita pubblica ed esteriore italiana, avvertita come estranea, e allo stesso tempo custodire gelosamente la propria identità culturale non solo nella sfera privata, ma anche in quella familiare.