An American hero L’orrore e la malinconia in Stephen King.

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Sostiene uno fra i migliori critici letterari italiani, Giovanni Macchia, in una sua antologia di saggi: “Nelle grandi civiltà un fatto letterario non resta fenomeno isolato. 

 È un prodotto di cultura che vive grazie alla società cui esso è destinato1”, dunque la sopravvivenza, e perciò la vita, di un’opera risulta imprescindibilmente legata alla società alla quale è destinato, che, del resto, si riflette al suo interno, come in uno specchio, a volte deformante, e che, riflettendosi, comprende sé stessa, spesso a distanza di decenni o addirittura secoli a seconda se siamo in America o in Europa.

Non me ne vogliano, ma gli europei sono letteralmente incapaci di farsi un esame di coscienza a caldo, nell’arco di qualche decennio, se non in rari casi, preferiscono piuttosto lasciare che si “raffreddi” l’argomento per poi analizzarlo, spesso con risultati eccellenti. Gli italiani sono diversi: non analizzano mai, semplicemente preferiscono scordare tutto e ripetere gli stessi errori; potremmo azzardare, e dire che l’intera storia dell’Italia, dalla sua unità, o presunta tale, è il continuo ripetersi in forme costantemente nuove del medesimo errore.

Uno fra gli autori moderni più celebri, e spesso più ignorati o sottovalutati dalla critica letteraria europea è certamente Stephen King; più che prolifico autore (oltre cinquanta libri, senza contare i film tratti da molti di questi), King riesce nella sua opera a coniugare due aspetti, i quali concedono ai suoi libri la capacità di affascinare il lettore anche dopo anni: l’aspetto orrorifico e fantastico, ed il lato malinconico, nostalgico.

Certamente la celebrità Mr. King l’ha ottenuta grazie principalmente alla prima di queste due componenti, quella orrorifica: è divenuto per antonomasia negli ultimi decenni LO scrittore horror, del resto i milioni di copie vendute di opere quali “Misery…”, “Shining”, “Carrie” e, soprattutto la celebre favola nera di nome “It”, lo testimoniano.

Ma oltre alla componente fantastica, a questa grande eredità di E.A. Poe e H.P. Lovecraft che King porta a spasso a testa alta, credo che la maggior parte del successo dei suoi libri anche e soprattutto verso un pubblico non più adolescente sia dovuto alla seconda componente, la nostalgia, la malinconia che si cela in quelle opere.

Oltre infatti alla superficie horror, fantastica di ottimi libri, si cela un substrato di emozioni, nel quale spesso i ricordi fanno da padrone, ed è lì che King dà il meglio di sé; non esiterei a definirlo uno scrittore bifronte: orrorifico per gli adolescenti, drammatico per gli adulti (e c’è da notare che molti ex adolescenti fan di Stephen King, fra cui il sottoscritto, sono ormai adulti).

Questo substrato, questa seconda componente, che si avverte principalmente dai venti anni in poi, è più facilmente individuabile in alcuni romanzi che in altri, come ad esempio in “Needful things”, “The Green Mile” o in film come “Hearts in Atlantis” e “Stand By Me”, opere permeate da un’atmosfera di eterna adolescenza, che hanno il sapore amaro del ricordo, di un qualcosa che non tornerà mai.

Certamente la combinazione di queste due qualità della scrittura di King è nella sua opera principe, “It”, una macabra favola nera nella quale un gruppo di uomini si ritrova, ventotto anni dopo, per sfidare il male, simbolicamente chiamato appunto “It”, l’impronunciabile, un qualcosa che assume le forme delle paure di chi ha dinanzi, e che spesso assume la forma di un clown di nome Pennywise, rovesciando la classica figura del personaggio comico, rendendolo terrificante, un mostro che non diverte, ma uccide i bambini, e che anche semplicemente a guardarlo emana un senso di terrore, e che solo dall’unione di queste persone, ormai uomini, ma dentro ancora bambini, può essere sconfitto.

Con quest’opera mastodontica (oltre mille pagine), pubblicata nel 1990 ed ambientata principalmente a Derry, nel Maine, come viene ossessivamente ripetuto nel libro, King propone una sfilata di personaggi, di icone che difficilmente non restano impressi nella mente del lettore, soprattutto nella prima parte, nella quale viene descritta la lotta di questi ragazzi, ancora non adolescenti, con il male, e dove vengono descritti soprattutto proprio loro, con le loro paure, debolezze, e nella quale King ci mostra come una città, per quanto piccola, sia un universo in continua evoluzione.

In contrasto con questi ragazzi troviamo il mondo esterno, popolato da adulti ciechi, mediocri, incapaci di vedere una realtà diversa da quella comunemente accettata, ed incapaci di notare anche quanta crudeltà vi sia in quella realtà così comunemente accettata: padri violenti, madri ingiuste, razzismo, tutto trova posto nell’universo creato da King senza creare problemi alla narrazione.

A ben vedere, in età adulta, rileggendo “It”, ciò che suscita realmente un senso di paura è proprio il perbenismo, l’aberrante normalità alla quale tutti nella cittadina di Derry sono fermamente votati, preferendo non credere all’incredibile, seppur reale, ma ad una verità falsa ed ipocrita.

Del resto, King è abilissimo nel non dirci mai cosa ci dovrebbe terrorizzare: ci fa immaginare tutto, ci spiega persino di quale colore sia l’insegna del barbiere all’angolo della strada, ci porta con se all’interno della città da lui costruita, ma non ci darà mai indicazioni precise su come sia fatto il mostro nella sua reale essenza (mentre nei suoi camuffamenti è anche troppo preciso), ed in questo paga un debito a Lovecraft certamente: il mostro è dentro di noi, e solo noi possiamo dargli forma.

Uno dei punti di forza dell’autore è certamente nella fluidità della sua scrittura, nel suo modus operandi: diretto, preciso ma poetico nella sua precisione, razionale quando tenta di spiegare l’irrazionale e fantastico nel trattare il reale.

Tornando ad “It”, oltre al modo di scrivere, anche la suddivisione del libro in capitoli è spia dell’incredibile capacità che questo autore possiede nel coinvolgere il lettore nella storia: enjambements fra un capitolo e l’altro, citazioni di giornali illusori, ma tremendamente reali, titoli che più che titoli appaiono come didascalie in un film che la nostra mente sta creando, tutto concorre a dare vita alla fiction, e se durante l’adolescenza la prima emozione era la paura, oggi è certamente il ricordo e la nostalgia a dominare.

King è certamente uno fra gli autori più importanti americani della seconda metà del novecento, su questo non ci sono dubbi, anche perché, senza nulla togliere alla maestria dell’autore, l’America ha bisogno di eroi, di scrittori nella sua folle rincorsa dell’Europa: da “terra promessa” nella quale era possibile realizzarsi, ormai eguaglia e supera in molti campi artistici il vecchio continente, vetusto ed incartapecorito nella sua torre d’avorio.

In moltissimi campi come ad esempio quello cinematografico, o quello musicale indubbiamente, eppure, sul versante della letteratura, l’Europa ha dalla sua oltre duemila anni di autori ed opere, l’America circa trecento, purtroppo (purtroppo in quanto sono stati gli americani stessi i carnefici della loro cultura originaria: Maya, Aztechi, Incas, pane per conquistadores…) .

Ritengo fondato credere che un giorno, non lontano, sulle antologie letterarie il nome di King verrà affiancato a colonne portanti di quella letteratura americana, così smodatamente nazionalista e meravigliosamente pacchiana, che hanno nome Kerouac, Steinbeck e Faulkner, e giustamente, perché, senza nulla togliere ai sovracitati autori, anche se diversa, la produzione letteraria di King è degna di essere posta nell’Olimpo della letteratura americana, sia per qualità che per mole di copie vendute. 
Leone Silvano.