Indagine sui cittadini al di sopra di ogni sospetto.

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Il riposo di un agricoltore che, in una sera autunnale, si ferma sfinito, e guarda assorto un po’ il cielo in fiamme, un po’ i solchi che ha finalmente tracciato, malinconico: questa credo sia l’immagine con la quale ho sempre considerato la scrittura di Cesare Pavese

, autore al quale neppure la morte ha concesso, finora, la giusta notorietà. L’ultimo suo romanzo, “La luna e i falò”, forse il più disperato, ma di una disperazione silente, contenuta, tipica della scrittura dell’autore, è viva testimonianza di un dramma che oggi appare di notevole attualità. Una piccola cronistoria del periodo in cui è stato concepito il romanzo può essere utile: Cesare Pavese inizia a scrivere quest’opera nel 1949, e nel giro di pochi mesi, nel 1950, la pubblica, medesimo anno in cui ottiene il premio Strega per “La Bella Estate”; torna dunque per qualche giorno alla poesia, compone un testamento lirico, “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”, e poi il buio: una sera di Agosto si uccide in una stanza dell’albergo “Roma”, a Torino. Contemporaneamente, Alvaro dà alle stampe “Quasi una vita”, Ungaretti pubblica “La terra promessa”, muore E. L. Masters,  scoppia la guerra in Corea, un senatore americano continua una sua politica, inaugurata qualche anno addietro e conosciuta come “maccartismo”, ed il mondo inizia a conoscere un tipo di guerra alla quale poi verrà dato l’aggettivo di “fredda”, mentre quello più appropriato è forse “viscida”. In breve, “La luna e i falò” è la storia di un ritorno al passato, un maelstrom di emozioni e ricordi difficile da seguire. Un emigrante torna, dopo anni, nei luoghi della sua infanzia, nelle Langhe piemontesi, e scopre come tutto intorno a sé sia mutato, tutto tranne la natura, ed anche come lui stesso sia mutato, e come guardi con occhi diversi il tutto. Nota il cambiamento, simboleggiato in incisiva maniera dal fatto che, mentre in passato i falò venivano accesi dai contadini per bruciare l’erba tagliata, o durante le feste, simboli dunque di festa per un bambino, e di speranza, ora questi fuochi sono incendi, appiccati dagli stessi contadini e frutto della rabbia e della disperazione di queste fasce, condannate eternamente da uno squallido Stato ad una vita di stenti. Unico trait d’union con il passato, oltre al paesaggio, appare Nuto, amico e faro del protagonista nell’infanzia, che ora è un amico di vecchia data. Il protagonista torna dunque a casa ma scopre che qualcuno, il tempo, eterno nemico invisibile ed invincibile, con l’uomo, ha distrutto il suo nido. Credo che, come uno Stato sia in grado ed abbia il dovere di far vivere, certamente in diversi modi, ma sempre in maniera dignitosa e serena i propri cittadini, abbia ugualmente vari modi di imprigionarli, e di costringerli ad azioni che non desidererebbero mai compiere, ma devono, loro malgrado. Con ciò intendo dire che l’emigrazione è un crimine, poiché sentita in tale maniera dall’emigrante, nel quale spesso si generano sensi di colpa misti a nostalgia, anche se non è lui il responsabile di ciò, bensì lo stato, se non il diretto fautore, il responsabile, inconsapevole mandante, di questo crimine assurdo.Certo, oltre alla scelta obbligata dell’andar via da un paese, vi è anche la decisione di chi, vedendo sviliti e vanificati i suoi titoli, ridicolizzate le sue capacità, o semplicemente desiderando uno status economico più elevato, decide di andare via dall’Italia, da questa isola attaccata all’Europa ma decisamente barricata dietro le sue Alpi, in cerca di un futuro migliore. Ma dubito seriamente che, se in questo paese vi fosse la possibilità di restare, alle medesime condizioni di altri paesi, persino tali persone, tali emigranti volontari, opterebbero per la “fuga”.Chi, quale Stato è infatti in grado di restituire ai suoi figli i giorni passati in obbligato esilio in un paese estero, per quanto ospitale questo possa essere? E del resto quale sanzione potrebbe essere applicata a chi, ai vertici del potere, destra o sinistra che sia, è mandante ed allo stesso tempo, con il suo silenzio, complice di tale situazione? L’Italia è un paese diviso in due, è noto: vi è il Nord, più europeo, certamente, ma europeo come può esserlo uno stato che per secoli è stato vassallo, con città in continui conflitti fra loro, e vi è il Sud, nel quale si annida la gran parte dei simboli distintivi del nostro paese (monumenti, tradizioni culturali etc etc…), positivi e, purtroppo, negativi, e per il quale il mondo conosce l’Italia (il cosiddetto “centro” è un’invenzione ridicola). Dato questo postulato, gli italiani del sud, i “terroni”, l’emigrazione la conoscono meglio di chiunque altro: andare da Bari a Milano negli anni cinquanta era come andare oggi da Roma a New York, anzi, peggio, perché, al dramma del lasciare il paese natìo, vi si aggiungeva la tragedia del razzismo che il meridionale trovava al nord, razzismo che è divenuto oggi, piuttosto che vergogna nazionale, addirittura bandiera di partiti che sono al vertice del governo. Tornando tuttavia alla domanda iniziale: chi, quale governo potrà mai restituire ai cittadini del suo paese gli anni di sofferenza che hanno dovuto patire? La risposta è inequivocabile: nessuno. Nessun ministro comprende il dramma di queste persone perché nessun ministro ha mai vissuto il dramma di queste persone: o forse credono che, per qualche anno passato all’estero, poi chi torna ritrovi sempre le stesse cose? Non è così, il tempo cancella, deride, divora e nessuna briciola può saziare la fame di anni addietro, la saudade che ognuno porta dentro di se. Oggi alla poesia dei falò accesi di notte si sta sostituendo la rabbia degli operai, degli insegnanti e di tutte quelle persone che, come unica dimostrazione possibile di rivolta ad un’ingiustizia sociale, salgono in segno di protesta sui tetti degli stabilimenti, sulle scuole e su qualunque altro simbolo possibile: veri e propri incendi umani, appiccati contro uno Stato che si barda di tute ignifughe, che non ascolta, incapace di garantire qualcosa che dovrebbe essere dovuto ai suoi cittadini, soprattutto ai più giovani: un futuro.E non vi sarà nessun Nuto a ricordare agli emigranti i tempi passati, perché anche lui sarà stato costretto a partire, o forse a restare, ma, anche in tal caso, non vorrà più ricordare, perché farà male anche il ricordo, il ricordo di una silente ingiustizia, compiuta con l’acquiescenza dei padroni dello Stato.