Invito alla lettura del libro che aprì le porte della prosa novecentesca alla poesia.
Eterno ed irrisolvibile, il conflitto fra poesia e prosa attanaglia da sempre i due attanti di ogni opera: il lettore e l’autore, binomio che spesso paragono a vittima e carnefice, con alternanza di ruoli.
La colpa dell’autore è tuttavia un tema che affronterò in futuro, come l’eterna passività del lettore, velato vittimismo che spesso cela la ferocia. Tuttavia ogni volta che mi capita di avere sottomano un testo poetico mi chiedo come scriverebbe quell’autore in prosa, mentre quasi mai avviene il contrario.
Non mi chiederò quali poesie infatti avrebbero potuto comporre Hemingway, Dostoievskij, Vittorini, forse perché non mi interessa semplicemente, o forse perché credo che nella prosa sia possibile vedere la poesia un po’ ovunque, in una frase, in un concetto. Al contrario, è davvero difficile vedere la prosa nella poesia, quasi impossibile, eccezion fatta certamente per alcuni autori, come Ludovico Ariosto, il cui viaggio sulla luna di Astolfo, contenuto nell’ “Orlando Furioso” è a mio avviso uno splendido esempio non solo di poesia mista a prosa, ma anche esempio di conciliazione del conflitto accennato sopra.
Ed è certamente raro osservare un poeta che si cimenti anche nella prosa, anche se non mancano noti casi, e con felici esiti, come ad esempio quello di Charles Baudelaire nei suoi “Les Paradis Artificiels”; comune invece il contrario, grandi narratori che si cimentano nella poesia, primo fra tutti Alessandro Manzoni.
Oggi mi accosto per la settima volta al lavoro di un poeta che non mi ha mai entusiasmato eccessivamente per i suoi lavori, anche se ne riconosco l’indubbia grandezza, e vedo proprio questa grandezza espressa, paradossalmente, nella sua opera di poesia in prosa, opera che non esito a definire un capolavoro assoluto: sto parlando di Pablo Neruda e di quell’immane manifesto poetico ed umano che costituisce la sua autobiografia, “Confeso que he vivido”.
Utilizzo la parola “manifesto” volutamente, in quanto reputo questo libro una vera e propria epifania, e cioè una manifestazione, del concetto di poesia, ma soprattutto, dell’applicabilità della poesia nel mondo, della sua utilità in ogni strato sociale ed in ogni società, oltre che il testamento di una persona che fino alla fine dei suoi giorni ha creduto in quello che ha fatto.
Certamente un libro scritto da chi ha composto alcune fra le più belle e note poesie del novecento sarà denso di quei concetti che spesso la lirica riesce a condensare in alcune frasi, eppure, rileggendolo, riesco a notare ancora come quest’uomo sia riuscito a conciliare in maniera davvero singolare e geniale un qualcosa di astratto ed etereo come è solitamente l’ars poetica con dei fatti più che concreti, unendo il tutto con una scrittura leggera, snella e di ampio respiro.
Abbiamo dunque il ricordo di un Chile lontano e fantastico, il racconto della terribile guerra di spagna, e della contemporanea morte, o meglio dell’assassinio, di Federico Garcia Lorca, la visione di una Cina sconosciuta e misteriosa, prima e dopo l’avvento di Mao Tse-Tung, eventi già di notevole interesse da un punto di vista culturale, ma che nella prosa nerudiana divengono letteralmente quadri, tableaux espressi con una padronanza della parola che ha dell’inverosimile. Eppure la forza della scrittura nerudiana non è nella valenza polisemica della palabra, quanto nei concetti che l’autore esprime e nella folgorante chiarezza con la quale conduce il discorso, trattando in egual maniera i più svariati argomenti.
Ad episodi storicamente verificabili si accostano infatti episodi della vita privata del poeta, spesso concernenti figure ben note del panorama letterario mondiale e non solo, ma anche eventi quotidiani, apparentemente insignificanti e che tuttavia, posti in maniera ora ironica, ora drammatica, ci permettono di comprendere anche il lato più nascosto di questo autore, rendendo la lettura dell’opera anche meno pesante.
Superfluo dire che, per quanto accurata, la traduzione italiana non può , e non potrà mai rendere giustizia all’originale, che spesso trova nella ricerca della parola, della “palabra”, una sua vera e propria raison d’etre.
E’ del resto un libro che ci mostra l’attualizzazione della poesia e che potrebbe chiamarsi senza dubbio anche in un altro modo, e cioè “Perché ho scritto”, anche se sarebbe decisamente diverso l’effetto del titolo. Ed è anche la confessione di un uomo che ha ferito con inchiostro, che ha creato le cicatrici più belle che un misero foglio bianco potesse mai sognare. Discendendo il fiume della poesia per giungere a sfociare nell’oceano dell’arte, se Lorca potrebbe essere paragonato in una ardita comparazione interdisciplinare a Dalì per la sua straordinaria immaginazione metaforica, Neruda potrebbe essere paragonato a Fontana, sia per la semplicità sia per la profondità delle sue liriche.
Non basterebbero venti citazioni a far comprendere la poesia in forma di prosa contenuta in quest’opera, un vademecum sia per scrittori che per lettori, che permette di comprendere al meglio non solo la poesia dell’autore chileno, ma in generale tutta la poesia, o almeno certamente quella del novecento, ma forse quella che dipinge al meglio Pablo Neruda è questo passo, all’interno di un paragrafo dedicato ai critici e intitolato ironicamente “Los criticos deben sufrir”:
“Yo sigo trabajando con los materiales que tengo y que soy. Soy omnivoro de sentimientos, de seres, de libros, de acontecimientos y batallas. Me comeria toda la tierra, me beberia todo el mar”.