Casuale forse, e nella casualità geniale, l’incipit scelto da Francis Ford Coppola per la trasposizione cinematografica del capolavoro, o meglio del primo dei vari capolavori di Mario Puzo che rispondono al nome di “The Godfather”
. Libri in grado di offrire un affresco notevole non solo degli italiani all’estero, ma anche, e soprattutto del modo di sentirsi italiani all’estero.Lontanissimo da un qualunque deprezzamento degli italiani come mafiosi fannulloni buoni soltanto a depredare in vari modi il prossimo, i libri di Mario Puzo sono stati certamente sepolti dai film di Coppola, coadiuvato da mostri sacri del cinema quali De Niro o Al Pacino, veri attori, non gli odierni commedianti da quattro soldi.E certamente ciò che, a qualunque amante di questi film resta impresso, ma anche dalla semplice lettura dei libri, è proprio l’incipit del primo, storico, “The Godfather”.
Il primo capitolo di questa saga ciematografica inizia difatti con la frase più assurda se vogliamo, ma anche più veritiera e nella sua assurdità, geniale, che si possa mettere in un film di mafia. Un uomo, ritratto in primo piano, pronuncia queste parole:“I believe in America”, “Io credo nell’America”. E’ sicuramente particolare che un film incentrato sulla famiglia Corleone, così fedele alle sue origini siciliane, che porta anche nel cognome stesso, inizi con una frase del genere.Ma credo sia proprio in questa maniera che Coppola, ed in precedenza Puzo, entrambi originari del paese di Dante, abbiano deciso di sottolineare una caratteristica peculiare degli italiani, data a volte per scontato: la loro malleabilità, la capacità di questo popolo, schiavo per quasi un millennio, se non di più, di adattarsi a diversi, svariati contesti, mantenendo comunque una sua, fortissima, identità.Vien quasi da dire che l’italiano si riconosce tale più all’estero che a casa sua. Ma non è semplice una questione di incapacità di relazionarsi con la realtà che lo circonda: tutt’altro, l’italiano interagisce, diventa in brevissimo tempo parte integrante ed in un certo senso, vitale, di quel contesto nel quale si trova, in una parola: ci crede.Ci crede molto di più di coloro che spesso lo abitano da sempre, incarna quegli ideali, quei valori che altri hanno perso, rendendoli suoi, e, soprattutto, non permette l’inverso, e cioè non permette che qualcuno possa divenire come lui. Un italiano può divenire americano, un americano certamente non diverrà mai italiano. E questo nel bene, ma soprattutto nel male.Una caratteristica degli italiani è difatti proprio quella volontà, quella capacità di ricominciare da capo qualunque cosa, di non perdersi mai d’animo e di non aspettarsi mai nulla di preparato; questo purtroppo fuori dai confini del belpaese. Dentro vige il contrario: dalla coscienza, o meglio dalla convinzione, vera in buona parte, che il nemico sia invincibile, scaturisce la considerazione che a nulla serva lottare, a che pro lottare difatti contro nemici quali la disoccupazione, la corruzione, il malcostume, quando in Italia sono proprio questi a regnare?E se, nonostante questi sovrani scomodi, l’italiano residente in madrepatria resta lì, anche a costo di veder sviliti, vanificati tutti i suoi sogni, o almeno la metà delle sue aspirazioni, possiamo dire anche che la sua battaglia in parte l’abbia vinta, ma a quale prezzo?E allora comprendiamo l’incipit della pellicola di Coppola, l’ironia insita in quella frase, e la verità che essa reca con sé. “I believe in America” diviene così molto simile a qualcosa come “I believe in everything in which I am involved”, credo in ogni cosa nella quale sono coinvolto, o meglio, sono capace di proiettare tutto me stesso in una determinata cosa, e ciò mi risulta davvero semplice, dal momento che vengo da un paese nel quale, per quanto puoi credere in una determinata cosa, probabilmente non riuscirai mai a farla per via dei “muri invisibili”. Muri invisibili che rispondono al nome di corruzione, ed altro.Quante persone ad esempio possono aspirare ad una carriera universitaria senza fare necessariamente gli schiavi a docenti affermati, o essere imparentati con qualche potente, in questo sobborgo europeo? Quanti provenienti da un ceto sociale basso possono aspirare ad una vita serena e ad un lavoro che non sia esclusivamente di fatica?La lista di possibili domande è lunga, e la risposta è sempre la stessa: pochi o nessuno. Curioso, un paese che non dà alcun futuro ai suoi figli, eppure che, per qualche vincolo assurdo, li lega a sé disperatamente, non permette che vadano via, padre sfaticato e padrone.E se questi vanno via, è facile per loro riuscire, certo, perchè, a differenza di molti loro coetanei esteri, credono in qualcosa, credono in sé stessi.Provate a laurearvi nei vari “grandi nomi” degli atenei italiani, fra tutte le ridicole operazioni burocratiche kafkiane e gli, irraggiungibili, professori-dei, e poi fate lo stesso in un ateneo straniero, tedesco, spagnolo, americano: non c’è realmente paragone, e con ciò non dico che laurearsi in altri atenei sia più semplice, ma piuttosto di sicuro meno assurdo.Si comprende facilmente quindi perchè un italiano, ad esempio uno studente, possa essere d’accordo con la frase-incipit di “The Godfather”: chi non crederebbe in qualcosa che gli dà un reale motivo di fare ciò, specialmente dopo aver creduto per anni in qualcosa che non dà alcun motivo? E chi vi parla gli studi li ha conclusi da parecchio.Il peggio purtroppo in Italia deve ancora arrivare, peccato non avere un Don Vito Corleone, a cui chiedere un aiuto, e dover aspettare semplicemente un’ingiustizia come pecore nell’androne di un mattatoio che già sa di sangue, sigarette e morte.