VITA PER VITA. “Non ho mai sofferto così tanto il freddo” pensò tristemente Morat mentre il vecchio gommone nero e sgangherato solcava le onde del mare di notte, creando vuoti d’aria e facendo sbattere i fragili corpi affamati e impauriti uno contro l’altro. Se l’era immaginato numerose volte: la scelta di andare, il viaggio, l’agognato arrivo e la sua mente speranzosa, che con fantasia crescente,osava immaginare un futuro migliore di quello a lui assegnato da un disegno divino!Solo alcuni anni prima non avrebbe mai considerato l’idea di emigrare dalla propria amata terra d’origine! La amava malgrado tutto: fame, caldo, fatica e pochi, pochissimi soldi.Ma c’era bisogno, un bisogno soffocante di denaro e di speranza, di crearsi una vita non lussuosa ma quantomeno decorosa. Se ne fece una ragione. Partì accompagnato da lacrime amare e consapevoli, pochissimi effetti personali, assalito da un immenso timore dell’ignoto,di ciò che l’attendeva.Strano davvero, anche se si è consapevoli che l’uomo è destinato a crearsi o subire inghippi di varia natura, ciò non influenza le aspettative future, sempre maggiori del vissuto reale.Morat era una persona realista ma coltivava l’ottimismo e cercava di trovare un appiglio speranzoso in tutto ciò che faceva;desiderava che almeno l’energia e la fatica investite in ogni suo progetto fossero ripagate appieno con la fiducia.Il saluto notturno, al porto, alla sua anziana madre fu un momento davvero straziante, denso di sentimento.Morat sperò fortemente, con cuore e ragione, che fosse l’unico addio da imporle nella sua vita!Spiegarle il motivo della partenza non fu piacevole, né semplice: il suo cuore di mamma non voleva accettare! I suoi metodi di allontanamento furono dapprima dolci e di uno spiccato amore filiale, poi però il dolore per il distacco impose un addio celere e straziante!Morat partì, tutti i risparmi di una vita investiti in quel viaggio e consegnati nelle mani di uomini senza volto e senza cuore; ma queste erano le regole, seppur ignobili, il prezzo da pagare per sperare in un futuro migliore.Il viaggio fu molto duro: il buio,il freddo, il pianto di piccoli bimbi affamati, la paura e la solitudine pesarono come macigni sul cuore di Morat.Poi finalmente l’arrivo, la sparizione istantanea del gommone e dei suoi “caronti”, losparpagliarsi frenetico dei profughi.Lo spirito di sopravvivenza aguzza l’ingegno e ancor più sovente ci spinge in situazioni estreme sui quali pericoli, per convenienza e per fortuna, non riflettiamo troppo a lungo.Un uomo sulla cinquantina, conterraneo di Morat, gli aveva confidato di avere contatti con un tale, già scappato dal proprio paese natale, che poteva offrirgli un posto di lavoro in un cantiere edile. Un lavoro in nero, faticoso, sottopagato ma un’ancora di salvezza per iniziare da subito a guadagnare un salario.Così, appena sbarcati, Morat si aggrappò a quella promessa e decise di seguire l’uomo.I due corsero fino al ciglio della strada più vicina alla spiaggia dove un vecchio furgoncino scassato li attendeva. A bordo c’erano già tre persone:dai loro volti stanchi si comprendeva tutta la fatica del lavoro di quella giornata. Quello fu il primo incontro con i suoi futuri amici. Morat pensò che in condizioni normali non avrebbero avuto poi molto in comune ma lì, soli e stranieri, di sicuro si facevano forza l’un l’altro, istintivamente.Iniziò a lavorare il giorno seguente. Era proprio come la sua mente immaginava: duro e interminabile; si lavorava in cantieri affollati di operai messi a dura prova da fatica e mansioni.Morat si stupiva di se stesso: lui che aveva sempre desiderato una famiglia, una casa, una compagna e dei bambini, adesso si riteneva fortunato di essere solo. Il suo cuore si sarebbe straziato al pensiero di non poter offrire loro nulla se non fame e disagio.I giorni passavano identici uno all’altro, trasformandosi velocemente in settimane, mesi e anni.Il lavoro era durissimo e i pochi soldi guadagnati venivano spediti agli anziani genitori, perché potessero vivere una vecchiaia decorosa. Morat se li immaginava spesso e a volte scriveva loro; sapeva che erano analfabeti ma sperava che qualcuno potesse trasformare le sue lettere in emozioni per due vecchi cuori affaticati.Nel tempo le sue amicizie si erano ampliate; amava parlare, conoscere e confrontarsi con altre persone. Aveva un desiderio bruciante di elevarsi, socialmente, culturalmente, di migliorare la sua precaria condizione!Avrebbe desiderato studiare, conseguire un diploma professionale e soprattutto uscire dalla clandestinità. Essere clandestino significava essere umiliato, non avere diritti e trovarsi sempre in pericolo. Si rendeva conto di non avere neppure la possibilità di ammalarsi,poiché non aveva diritto ad essere curato.Decise così di ufficializzare la sua posizione nel paese che inconsapevolmente lo aveva adottato. Tra tanti falsi amici trovò una persona che gli tese una mano e lo aiutò con la complicata rete della burocrazia. Finalmente ottenne il visto. Era ciò che desiderava più di ogni altra cosa: essere in pace con se stesso, nel lavoro, con la legge e soprattutto con il suo cuore.I suoi sforzi e le sue fatiche furono lentamente ripagate;la speranza continuava a germogliare nella sua anima e ciò lo dotava di un forte slancio vitale. Continuava a inviare lettere ai suoi cari, fantasticando sul giorno che li avrebbe visti riuniti sotto il drappello di un unico stato.Lavorava quanto più poteva ed era riuscito ad affittare un monolocale (piccolo, anzi minuscolo, ma per lui grande come un regno!) e poteva permettersi una piccola utilitaria,usata ma in ottimo stato. Si sentiva bene adesso, un uomo fortunato, contento di ciò che aveva costruito con tanta dedizione e fatica. Una felicità autentica.Un giorno, uguale a tanti, si recò al lavoro e iniziò a darsi da fare con mattoni e arnesi. Faceva molto freddo e la nebbia, avvolgente e penetrante, rendeva più malinconico il suo animo. Richiamato da un suo collega in cerca di aiuto, si mosse sull’impalcatura con la sicurezza di sempre ma, subdola e fatale,la nebbia lo tradì e scivolando cadde a terra dopo un lungo volo nel vuoto.I colleghi accorsero in suo aiuto ma nulla restò da fare se non piangere il suo corpo straziato e maledire quella impalcatura mortale. Dai suoi amici si seppe che era un brav’uomo, intento a costruirsi una vita ed un futuro migliori in attesa di ricongiungersi con la sua famiglia d’origine. Finiva così la sua vita ed il suo sogno. Poi, la sorpresa: nascosto nel suo portafoglio, un cartellino plastificato, rovinato e sgualcito ma integro nel suo contenuto: l’autorizzazione alla donazione degli organi. Ciò era davvero in linea con la generosità del suo animo.Aveva detto un giorno allegramente “Qui ho finalmente dato vita alla mia vita!”. Ora Morat, generoso ed altruista, per un tragico gioco del destino, regalava la possibilità ad altri uomini, non importa di che nazionalità, di ottenere una seconda vita grazie ai suoi organi! Cristina Tonelli