IL VIAGGIO UMANITARIO DEL NOSTRO ITALIANO

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  PURI, India  Il termine Birmania fu coniato dagli inglesi dal nome dell’etnia dominante, per i birmani il loro paese si chiama Myanmar, come per i tedeschi la loro patria è Deutschland e non Germania. 

Comunque lo si voglia denominare, questa è di gran lunga la nazione più affascinante e con la popolazione più mite, di indole amichevole e dolce di tutto il Sud-est asiatico, soprattutto grazie ai decenni di isolamento imposto dalla giunta militare che l’hanno conservato puro e genuino. Attraversando il ponticello tra Mai Sai e Tachilek si entra in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo moderno, si fa un salto indietro ad un era in cui la principale forza motrice è quella animale; le poche banche non hanno ATM; l’elettricità ed il telefonino sono un lusso per pochi; le donne si cospargono il viso con la segatura e gli uomini portano la gonna! Queste ultime due caratteristiche sono peculiari del paese e saltano immediatamente agli occhi. Infatti colpisce vedere donne di qualunque età, i bambini di ambo i sessi e qualche uomo coprirsi le guance e la fronte con il legno di Tanaka (Glycosmis mauritiana), ridotto in polvere fine, di color crema dorata, che ha funzione protettiva dai raggi solari e mantiene la pelle bianca, così da far sembrare le ragazze delle graziose bamboline di ceramica. L’ho provato un paio di volte con il risultato di avere una pelle morbida e vellutata per tutto il giorno successivo. Quello che invece non ho provato, perché scomodo per andare in bici, è il lonjin, la lunga sottana elegantemente indossata dagli uomini e costituita di un tessuto cucito a tubo e semplicemente annodato sul davanti, diverso dallo stesso capo d’abbigliamento femminile che ha in più le pence per il garbo alla vita con la chiusura a gonna a portafoglio, simile al sin laotiano. In un internet caffè a Tachilek, al momento di aggiornare il blog della Travel For Aid, ho scoperto che l’accesso era bloccato dai filtri governativi analoghi a quelli cinesi, con la differenza che qui i risultati della ricerca su Google appaio tutti ma le pagine censurate non possono essere visualizzate, in Cina il motore di ricerca fa da filtro/censura non elencandole affatto. Quello che scoraggia maggiormente l’uso del computer è la cronica mancanza d’elettricità, razionata secondo un calendario pubblicato sui maggiori quotidiani, per esempio, la settimana che ho trascorso a Yangon lunedì dalle 6:00 alle 15:00 c’era, poi via sino alle 23:00, c’era per tutta la notte ma era tagliata di nuovo la mattina di martedì per tornare il pomeriggio e al buio per 12 ore, e così via. Tutti hanno un generatore diesel a portata di mano e prosperano i negozi di batterie ricaricabili, candele e lampade a petrolio. Nel tardo pomeriggio del 24 gennaio sono sbarcato all’aeroporto di Heho ed in bicicletta mi sono diretto a est verso il lago Inle a 25 miglia di distanza; utilizzano il sistema di misurazione imperiale dei colonizzatori britannici, ma malgrado ciò, la corsia di marcia è quella destra anche se tutte le macchine hanno il volante a destra! Al calare della notte ho cercato inutilmente alloggio nel villaggio di Heho e, mentre mi apprestavo a legare l’amaca a due robusti alberi di tek appena fuori dell’abitato, sono stato raggiunto da tre poliziotti in borghese, con tanto di tesserino in inglese, che mi hanno fatto notare che per “motivi di sicurezza” non era permesso agli stranieri dormire in quel distretto. Quindi, hanno bloccato un camioncino stipato di contadini e dei loro prodotti, mi ci hanno caricato con la bicicletta e hanno chiesto al conducente di portarmi sino a Nyaung Shew dietro compenso di un dollaro. Da qui ho percorso gli ultimi 10 chilometri per la riva del lago dove ci sono gli alberghi internazionali, pedalando sotto una luna quasi piena che illuminava a giorno la strada dal fondo sconnesso ma diritta. Potrei scrivere un libro sulle pessime condizioni delle autostrade birmane, intitolandolo “Le peggiori di tutto il Sud-est asiatico” sia per l’esigua striscia bitumata al centro della carreggiata sterrata, dove ci passa a stento un camion ed una bicicletta, sia per l’infima qualità dell’asfalto stesso che si sgretola sotto il peso degli autocarri. Ho visto vari cantieri stradali dove lavoravano soprattutto donne dei villaggi limitrofi coordinate da un ufficiale del ministero delle infrastrutture che guidava il rullo compressore ed ho studiato la tecnica di costruzione: posare strati di sassi di grandezza decrescente sino all’ultimo di ghiaia ricoperta da un millimetrico strato di bitume cementato alla sabbia. Nel giro di qualche mese le pietre si scostano l’una dall’altra e vengono fuori le prime buche che si allargano a diventare crateri che eventualmente vengono rattoppati con altri ciottoli trasformando il fondo stradale da un susseguirsi di buche ad un continuo di cunette, che costringono a procedere a passo di lumaca. Se a ciò aggiungiamo le forature che mi hanno tartassato, l’assenza di cartelli segnaletici con i nomi delle località, le irte salite montane, l’impetuoso vento nelle vallate e sugli altopiani, la temperatura dell’aria che passa dai 10° C mattutini ai 30° C di mezzogiorno e la scarsità di alloggio che mi ha costretto a tappe di oltre 150 chilometri, il Myanmar è stato il paese del Sud-est asiatico più impegnativo da percorrere in bicicletta. La sera del 25 gennaio, ho fatto conoscenza con due simpatiche ragazze cinesi di Singapore, anche loro per un mese in giro per il Myanmar, con le quali ho trascorso il giorno successivo visitando il pittoresco mercato ed un paio di pagode nella cittadina. In mio onore, siamo andati a cena nell’unico ristorante italiano della regione dove il cuoco birmano prepara lasagne, tagliatelle e gnocchi fatti in casa oltre che una pizza a pasta fine che non ha niente da invidiare a quella originale del Bel paese. Quando il proprietario ha saputo della mia nazionalità, mi ha invitato a vedere la cucina dove ho constatato la presenza ed il corretto uso di una luccicante macchina a manovella per fare la sfoglia, dello stesso modello con cui giocavo da piccolo mentre mia nonna preparava le orecchiette per il pranzo della domenica. Linh è una disegnatrice grafica mentre Anh è una manager disoccupata che per gli ultimi due anni ha lavorato nella Cina popolare per una società finita nella spirale dei fallimenti seguiti alla crisi economica. Come tutti i singaporiani, che parlano benissimo inglese ma tra di loro preferiscono comunicare in mandarino, esteriormente sono perfettamente occidentalizzati ma il midollo resta fortemente quello dell’etnia Han, con i suoi 3000 anni di disciplina confuciana, abnegazione del singolo alla famiglia ed alla comunità e convinzione di essere una razza superiore in civiltà rispetto alla barbarie al di là dei confini dell’Impero di mezzo. Nonostante tutto ciò, fuori dal contesto professionale, i cinesi sono dei gran festaioli, gioviali e di ottima compagnia, con pochi tabù ed una gran voglia di godersi la vita, quando non si lavora… Il 26 gennaio sono partito in bicicletta a fare un giro del lago Inle, che ho attraversato in barca nella parte centrale dove sulle rispettive rive si trovano due villaggi su palafitte conficcate nell’acqua bassa. Questo tipo di costruzione è comune in tutta l’Asia meridionale, ma qui sono rimasto colpito da vari fabbricati in legno su due piani e di straordinaria grandezza; delle vere palazzine adagiate su lunghi trampoli con tanto di terrazzo al piano nobile, colonnine tonde a capitello quadrato, architrave riccamente decorato da tavole di legno policromo intarsiato e tetti a duplice livello. Attraversando il lago con la moto-piroga, abbiamo inseguito un paio di stormi di Germani reali che galleggiavano pacifici sull’acqua piatta sino a quando la nostra presenza non li ha disturbati e tutti si sono alzati in volo, vanificando le speranze del barcaiolo di poterne facilmente catturare qualcuno stanco o con un’ala rotta. Il lago è anche famoso per i pescatori che solcano le sue acque stando ritti su una gamba a poppa della piroga e utilizzando l’altra per vogare con un lungo remo, così da avere entrambe le mani libere per calare ed issare le reti. La sera del 27 gennaio ho salutato le mie due conoscenze di viaggio ed il 28 ho ripreso la strada verso ovest, scalando montagne sino ai 1200 metri del borgo di Kalaw abitato da una folta comunità di indiani Sikh con gli uomini che portano la barba lunga e i capelli raccolti in piccoli turbanti. Questa è stata la giornata sportivamente più impegnativa del viaggio sia per le ripide salite che per la temperatura rigida, ma al tempo stesso ho ammirato paesaggi mozzafiato ed ho attraversato strette gole lungo gli argini di fiumiciattoli in secca, passando ore senza vedere anima viva, tanto che ho spesso dubitato di essere sulla giusta via. Nei radi villaggi lungo l’Autostrada 4, direttrice principale est-ovest, si svolgevano le attività di vita rurale con gli stessi gesti e ritmi invariati da 400 anni. In uno di questi, ho squarciato la camera d’aria della ruota posteriore battendo violentemente contro un sasso acuminato ed ho effettuato le riparazioni al coperto della tettoia di una casa sotto gli occhi attenti di metà dei bambini del circondario che parlottavano tra di loro tenendo una rispettosa distanza. Negli altri paesi del Sud-est asiatico, a quasi ogni sosta in un ristorante o albergo c’era sempre qualcuno che in un inglese sommario era curioso di sapere la mia storia, in Myanmar nessuno mi si è mai avvicinato a fare domande. Sicuramente c’è un’atavica diffidenza per il bianco colonizzatore e sfruttatore, ma soprattutto il governo non vede di buon occhio i rapporti troppo stretti tra i suoi soggetti e gli occidentali, che hanno già contaminato abbastanza queste terre. La giornata del 29 è stata molto più agevole grazie ad una discesa che per 25 chilometri continui mi ha portato a valle e poi attraverso lunghe pianure e profondi canaloni sono arrivato alla città di Meiktila antico crocevia nord-sud ed est-ovest. Da qui comincia la piana alluvionale creata dal fiume Ayeyarwaddy e la Birmania arida, con la terra ridotta a polvere rossiccia dove resistono solo palme da zucchero, eucalipti, qualche solitaria acacia e maestosi Ficus benjiamin lungo la strada. Tutto sembra vecchio e decadente, coperto dalla terra rossastra sollevata dal forte vento e bruciato dal sole che sbianca i colori. Fanno eccezione le numerose caserme disseminate lungo il tragitto i cui muretti di cinta e i trionfanti archi con le insegne del reggimento all’entrata sono dipinti di fresco e tenuti in impeccabili condizioni dai giovani soldati di leva. In questo tratto di strada ho incrociato convogli di arroganti camion militari con le canne di grossi cannoni ben in vista sulla cabina del conducente, al cui passaggio tutti si fermano ed ho imparato a farlo anch’io dopo le urla e gli ampi gesti di un ufficiale in jeep che brandiva un bastone di bambù. Nonostante il Myanmar sia un paese militarizzato, è rarissimo vedere persone in divisa aggirarsi per le vie eppure ci sono, osservano e registrano. Tutto cominciò il 4 gennaio 1948, in un giorno fausto secondo le predizioni degli astrologhi, quando venne proclamata l’Indipendenza della Birmania dalla Corona britannica. Nacque così l’Unione di Myanmar che è una federazione composta da sette Stati tradizionalmente popolati in prevalenza da etnie che hanno loro dato il nome. La Costituzione promulgata nel 1994 prevede un regime parlamentare pluripartitico ma non è mai entrata effettivamente in vigore ed il potere è di fatto esercitato da un Consiglio di Stato composto dai rappresentanti delle due massima l’autorità che universalmente controllano le masse: la forza delle armi e la religione. Si tratta di un accordo diabolico tra i militari ed i monaci buddhisti, che ha tenuto in un pugno di ferro le sette nazionalità, impedendo di scannarsi a vicenda come hanno fatto per secoli. Un sistema di potere in cui i religiosi reggevano dicasteri ministeriali ed i generali si comportavano come pii monaci frequentando pagode e luoghi sacri, visite immortalate in gigantografie mostrate fieramente nei luoghi di culto. L’alleanza ha tenuto per più di 50 anni, fino a quando le nuove leve di generali quarantenni, bramosi più di arricchirsi materialmente che spiritualmente, ha allontanato gradualmente i religiosi dai posti di comando e tagliato i contributi alle fondazioni ecclesiastiche che mantengono un’intera classe parassitaria di più di tre milioni di professionisti della fede. Gli scontri di piazza dell’autunno 2007 sono il risultato del malcontento della chiesa buddhista, che vede erodere antichi privilegi, unito al legittimo idealismo democratico degli studenti, anche se la vera scintilla che ha portato in piazza le masse è scaturita da un motivo molto meno nobile: l’aumento del costo della benzina del 50% in un giorno! Talvolta, ho provato a parlare di politica con qualche birmano istruito, ma non hanno un’idea precisa di cosa sia la democrazia. Certo, non è facile capire concetti come alternanza di governo o opposizione parlamentare in un paese dove i militari sono onnipresenti come il grande fratello di Orwell in 1984 e che hanno di fatto invalidato con la forza gli esiti delle uniche elezioni mai indette che si svolsero nel maggio 1990 e che avevano visto la Lega Nazionale per la Democrazia ottenere il 59,9% dei suffragi e conquistare 392 seggi su 485 all’Assemblea Nazionale. L’ironia della storia vuole che la presidentessa del LND sia il premio Nobel per la Pace nel 1991, Aung San Suu Kyi, che conduce una lotta di opposizione alla giunta militare creata proprio da suo padre, Aung San, comandante supremo del Burma Indipendence Army e Padre dell’Indipendenza nazionale. Sotto la pressione internazionale, soprattutto da parte dei paesi democratici dell’ASEAN, le forze armate hanno promesso libere elezioni per quest’anno, rimandandole dal mese di maggio a quello di ottobre, ma alla data di oggi non è ancora stata promulgata la legge elettorale né è stata autorizzata la creazione di partiti politici. Il 30 gennaio sera sono approdato a Nyaung-U nei pressi della vasta piana di Bagan, sulla riva est del secondo grande fiume himalaiano sul mio itinerario, l’Ayeyarwaddy. E’ la mia seconda visita in questo luogo, la prima risale al 2006 quando con Giacomo e Giulio abbiamo viaggiato in Myanmar per un paio di settimane. Assolutamente nulla di sostanziale è cambiato da allora, come nel resto del paese che si trova sotto un blando embargo internazionale per violazioni dei diritti umani e vive di un’economia quasi autarchica. Lo si vede chiaramente negli affollati mercati con poche merci in vendita sui banconi ma tutte in gran quantità, anche se a ben guardare c’è tutto quello che è utile in queste aree rurali dove la gente è poco avvezza al superfluo. Le multinazionali hanno vita dura a competere con i beni di produzione locale come la Starcola al posto della Cocacola e la Splash invece che la Fanta. I cartelloni pubblicitari sono cosa rara e prevalgono in assoluto quelli delle birre ed i superalcolici locali, con nomi quali birra Myanmar o whisky Mandalay, di cui c’è un gran consumo da parte di tutti a tutte le ore del giorno. Idem si può dire per i sigari di ogni dimensione e diametro che sia uomini che donne fumano ostentatamente, ma la vera piaga sociale è l’uso largamente diffuso del betel. Gli alcaloidi contenuti nella noce della palma di betel, masticata con la calce in polvere e spezie varie secondo i gusti, il tutto avvolto nelle foglie dell’albero del pepe, anestetizza la bocca e toglie l’appetito, fa diventare i denti e le gengive rosse, aumenta la secrezione della saliva che viene copiosamente sputata ad ogni piè sospinto e porta alla dipendenza fisica. Praticamente, è il corrispettivo asiatico delle foglie di coca masticate dagli indios sudamericani, che un tempo era utilizzato in tutto il Sud-est asiatico da ogni strato della società, esempio ne è un bellissimo set di porta noci d’argento nel palazzo reale a Luang Prabang in Laos. Altrove, oggi è di appannaggio quasi esclusivo degli anziani nelle zone rurali, mentre in Birmania i banchetti vendono la droga ad ogni angolo di strada ed il consumo si estende a tutte le fasce d’età. Questa è l’unica abitudine veramente sgradevole dei birmani, che già da giovani hanno sorrisi da film dell’orrore con i denti anneriti e consumati, sputano continuamente una saliva rossiccia mischiata al sangue dei capillari gengivali spaccati e sviluppano una specie di deformazione delle guance. Il governo ha lanciato intempestive campagne tese a scoraggiarne l’uso, con scarsissimi risultati reali, intanto l’introito fiscale derivato dalla tassazione del betel aumenta ogni anno; è come per le sigarette e gli alcolici che portano al tabagismo e all’alcolismo, ma gli stati ci guadagnano così tanto che diventano il minore dei mali. Ho cominciato il mese di febbraio 2010 pedalando sulle polverose stradine che zigzagano tra le circa 3000 strutture religiose nell’estesa piana di Bagan sino a scemare nell’Ayeyarwaddy. Un migliaio di anni or sono, qui sorgeva una città capitale ed ancora oggi questo è il sito archeologico più rilevante del paese. Ero accompagnato dalla guida Mr Botathaung, che inforcava una bicicletta nera da uomo di fattura indiana con i freni a bacchette, a cui ho chiesto di selezionare un percorso che escludesse i monumenti più frequentati, già visti la scorsa volta, e di includere quelli che avessero una qualche influenza induista o scene tratte dalla mitologia indiana, in un ordine cronologico. Così, con il mio Virgilio, abbiamo riaperto stupa, pagode, monasteri e zeti (stupa vuoti) dimenticati dal tempo e dal turismo, dove le immagini della Trimurti in compagnia di altre divinità dell’olimpo induista facevano da contorno a quelle del Buddha. Nel corso degli ultimi mille anni, i fedeli buddhisti di ogni strato sociale hanno fatto erigere questi monumenti religiosi realizzati in mattoni cotti e pietra arenaria nelle le parti nobili, per ingraziarsi l’Illuminato e forse farsi perdonare un’esistenza in cui non hanno seguito alla lettera i Suoi insegnamenti, e perciò sperare di vedersi assegnato un Karma positivo nella prossima. Secondo le cronache imperiali cinesi, Bagan competeva per magnificenza e sontuosità con le altre due città simbolo dello splendido medioevo asiatico, Angkor e Kambaluk, l’attuale Pechino. Il terzo giorno di febbraio, ho ripreso la strada direzione sud verso Yangon raggiungendo la cittadina di Magwe dove le forze di sicurezza mi hanno seguito nell’alberghetto mia residenza per la notte e, dopo aver studiato attentamente il plico di documenti con i timbri ministeriali per circolare nel paese, con l’aiuto di un interprete mi hanno informato che senza una guida locale non avrei potuto proseguire in bicicletta ma solo con mezzi pubblici. Hanno incaricato Mr Chung, il vecchio proprietario della guesthouse, di mettermi sul primo autobus per l’ex-capitale del Myanmar, poi uno di loro è partito in motorino, mentre l’altro è rimasto di piantone al bar dell’albergo a trangugiare una birra da me gentilmente offerta. La mattina seguente, il nipote di Mr Chung mi ha portato alla stazione assicurandosi che acquistassi un biglietto di sola andata per Yangon sulla prima corriera quella delle 17:00 ed in lontananza ho rivisto i poliziotti del giorno prima. Il viaggio con un autobus mezzo sgangherato e assemblato per la prima volta poco dopo la mia nascita, è stata una piccola avventura durata 18 lunghe ore invece delle 12 previste, a causa di un guasto meccanico che ci ha costretto a tre soste nel mezzo della notte. Durante le prime due l’autista e i suoi assistenti hanno cercato di riparare il danno con successi solo parziali, mentre nella terza abbiamo raggiunto un esteso centro abitato dove un vero meccanico è stato buttato giù dal letto e ancora assonnato ha dimostrato la superiorità dell’uomo sulla macchina permettendoci di terminare il tragitto. Pertanto, il cinque febbraio alle 11:30 l’autista ha finalmente tirato il freno a mano nel piazzale della stazione Aung Mingalar al nord di Yangon e, dopo aver appurato che la bicicletta non aveva subito danni strutturali ma solo graffi superficiali durante le ore passate nella pancia della corriera in cui era stata sballotta coricata su un cartone misterioso e sacchi di cipolline rosse simili a quelle di Tropea, mi sono diretto verso il centro storico a ridosso delle rive dell’Ayeyarwaddy. Yangon non è più la capitale del Myanmar, i maggiori uffici pubblici sono stati spostati circa 400 chilometri a nord a Pyinmana che vuol dire “luogo di re” o “sito regale”, una moderna Versailles creata da un regime paranoico che sta dando gli ultimi colpi di coda. La città amministrativa è interdetta ai comuni mortali e già ci sono legende metropolitane che parlano di un luogo dove le piscine delle ville sono estese come laghi, l’elettricità non è razionata, i negozi vendono beni di lusso d’importazione, internet non è filtrato, le strade sono lisce come l’olio, l’acqua dei rubinetti è potabile e c’è sempre bel tempo, anche se su quest’ultimo punto avrei i miei dubbi! In questa scelta della giunta militare esistono delle ragioni politiche, non molto chiare ma intuibili, e motivazioni storiche, invece, molto più esplicite. Durante la Seconda Guerra mondiale, Pyinmana fu infatti la base principale della Burma Indipendence Army, quasi un tentativo del governo di “riappropriarsi” della sua eredità storica e politica, e l’ipotesi è resa più credibile dal fatto che il trasferimento della capitale si sia ufficialmente compiuto il 27 marzo 2006 nel cinquantunesimo anniversario dell’insurrezione contro i Giapponesi. Già l’altra volta che ci sono stato, ho trovato l’area downtown di Yangon un luogo piacevole per passeggiare tra le stradine e i larghi boulevard con i marciapiedi intasati dalle bancarelle che offrono cianfrusaglie di seconda mano, abbigliamento, verdure e pietanze cotte lì per lì. La variopinta fauna umana che si aggira in città è un mosaico etnico di popolazioni di stirpe sinobirmana-tibetana come i Birmani e gli Shan; di austro-asiatici come i Mon; di indiani e arabi arrivati qui con gli inglesi, e questa varietà rispecchia l’architettura cittadina civile e religiosa. Sorprende vedere costruzioni vittoriane al fianco delle torrette a cupola dei minareti o degli archi a parabola indiani ed il miglior esempio di molteplicità architettonica e di libertà religiosa è il giardino di Mahar-bandoola dove si fronteggiano su tre lati la pagoda buddista, la chiesa cristiana e la moschea islamica. Qui nel centro cittadino, quasi tutte le costruzioni sembrano lasciate ad uno stato di decadenza con la prorompente vegetazione tropicale che arriva a creare selvaggi giardini pensili aggrappandosi alle crepe nei muri polverosi e vecchi, prematuramente logorati dal tempo. Diversi sono i quartieri della città nuova a nord, con larghi stradoni che collegano i laghi e le sontuose ville circondate da verdeggianti parchi arroccati sulle alture dove spiccano le cuspidi dorate degli stupa che riflettono i raggi solari a decine di chilometri. Yangoon è una città asiatica atipica, difatti è l’unica dove è vietata la circolazione dei motorini ed in molte strade anche delle biciclette, costringendo i 5 milioni di cittadini a spostarsi in taxi oppure con i sovraffollati autobus di servizio urbano. La ratio legis che ha ispirato il governo ad assumere questa misura non è troppo chiara, ma pare sia scaturita dall’incidente mortale del figlio di un alto generale, quindi è logico dedurre che la disposizione legislativa è tesa a impedire la possibile moria di rampolli delle famiglie al potere, essendo le uniche che possono permettersi un motorino. Per cinque giorni ho soggiornato a Yangon nel cuore di Little Iindia, tempo necessario per completare le procedure consolari e ricevere il visto di tre mesi dall’India e quello di un mese dal Bangladesh. Ho anche fatto conoscenza con Mike Griffiths, che avevo contattato precedentemente, direttore nazionale della The Leprosy Mission International (TLMI), una ONG britannica nata circa 130 anni fa per combattere la lebbra che ha allargato il suo campo d’azione a coprire tutti i tipi di disabilità. Con Mike abbiamo pianificato tre visite ad istituti di riabilitazione psicomotoria, due a Pathein in direzione della costa del Golfo del Bengala ed una in città. Il 10 febbraio sono partito alla volta del mare dove ho fatto esperienza con la tattica della “terra bruciata” utilizzata dalla polizia per scoraggiare i forestieri a girare da soli nel paese. Avevo previsto di passare la notte nell’unico alberghetto a due terzi di strada, arrivatovi mi sono sentito rifiutare ospitalità perché così ordinato da ufficiali dell’immigrazione passati nel pomeriggio. Quindi, sapendo che comunque non avrei potuto dormire all’aperto, ho dovuto pedale per altre tre ore al buio per raggiungere Pathein, considerata un enclave sicura per gli stranieri. La mattina successiva Miss Doh Htoo, direttrice degli istituti locali, è venuta a prendermi in motorino e l’ho seguita con la bicicletta per una ventina di chilometri sino ad un villaggio dove la TLMI ha messo su un centro di accoglienza completamente autogestito dalla comunità locale per i bambini diversabili dalle zone rurali limitrofe. La sede del centro, che funge da scuola primaria per una trentina di scolari, è un’ariosa capanna su palafitte con le pareti di bambù intrecciato ed il tetto di paglia. Purtroppo, è in aree di campagna come questa che le condizioni dei disabili sono molto peggiori dei centri urbani e avere un figlio con disabilità è un forte peso per la famiglia. Ho trascorso circa tre ore con i bambini, giocando a palla ed imparando l’alfabeto birmano sotto gli occhi curiosi di alcuni genitori seduti in un angolo della classe. Salutata Doh Htoo, che avrei rivisto cinque giorni dopo per la visita ad un altro centro, ho percorso i 40 chilometri che mi separavano dal mare e dalla stazione balneare di Ngwehsaung, conosciuta per la sua spiaggia bianca ed il mare cristallino, entrambi all’altezza della fama e superiori alle mie aspettative. Qui ho alloggiato per tre notti in un albergo fantasma, nato come 4-stelle, era fallito da due anni ma il guardiano, Mr Wunna, con la famiglia teneva attivi quattro eleganti bungalow un po’ rugginosi ma con una spaziosa veranda direttamente sulla spiaggia. La prima notte ho avuto un certo timore perché ero il solo ospite del resort che al buio aveva un aspetto terribilmente spettrale; le altre due mi ha tenuto compagnia una famiglia birmana composta da una decina di membri compresi nonni e nipoti, che si sono sistemati nei due bungalow ai miei lati. Come nei precedenti incontri con i locali, i rapporti con i miei vicini si sono limitati ad un rispettoso ed educato saluto ogni qualvolta ci trovassimo faccia a faccia, nonostante uno dei figli ed il marito parlassero bene inglese; sembravano completamente disinteressati a me e a cosa ci facessi lì. Ho fatto abbondanti scorpacciate di pesce, gamberoni e calamari grigliati dalle donne del villaggio che li vendono la mattina sul bagnasciuga, pagando somme irrisorie anche per le mie misere finanze. La mattina del giorno di San Valentino, l’ho trascorsa pedalando su quella che il direttore/custode dell’albergo aveva definito strada sterrata e che in realtà si è rivelata un viottolo tra capanni di pescatori, palmeti ed intrigati boschetti di mangrovie che segue la costa sino all’altra stazione balneare di Chaungtha. E’ stato uno dei tratti più belli che abbia percorso ad ora; non più di 25 chilometri in cui bisogna guadare tre fiumi su delle instabili barchette a remi e pedalare sulla spiaggia per raggiungere il villaggio di Chaungtha prima di arrivare alla striscia di alberghi per occidentali e facoltosi birmani che si stende sul lungomare. Wunna mi aveva raccomandato una pensioncina vicina alla riva e ci sono andato a suo nome ricevendo un sostanzioso sconto sul prezzo della camera. Il pomeriggio del 14 febbraio, mi sono seduto su uno scoglio a contemplare il mare meditando sugli amori, turbolenti e non, passati nella mia esistenza, a come sono terminati o sono rimasti in sospeso e, dopo malinconiche rimembranze seguite da riflessioni sul tema, ho concluso che, anche se mi diventa sempre più difficile innamorarmi, ho ancora tanto sentimento da offrire a chi lo vuole ricevere. Il 16 alle sei di mattina, ho salutato a malincuore il mare per tornare sui miei passi verso Yangon attraverso il rigoglioso delta dell’Ayeyarwwaddy e dopo 150 chilometri erano scese le tenebre e non ero ancora in vista delle luci cittadine. Per la prima ed unica volta in Birmania, un camioncino mi si è accostato invitandomi a salire abbordo. Non ci ho pensato un attimo ad accettare il passaggio e sono montato nel cassone trovandomi seduto con due donne, una ragazzina ed un uomo con la barba lunga, tutti di origine indiana dello stato Tamil Nadu che tornavano da una scampagnata per il lungo fine settimana in occasione della festa nazionale per la nascita della Federazione del Myanmar. Nell’oretta trascorsa per arrivare al mio hotel, ho stretto amicizia con i miei compagni di viaggio che mi hanno invitato a cena a casa loro il giorno successivo. Così, alle 20:00 mi sono presentato all’uscio dell’abitazione con in una mano un pacchettino di dolci locali e nell’altra il computer e sono stato messo ad accomodare su un cuscino a terra. I miei ospiti erano commercianti indiani di religione mussulmana, in quel paese da tre generazioni, produttori di scope vegetali esportate verso il subcontinente al ritmo di due container al mese. Abbiamo cenato seduti su una stuoia intorno ad un tavolino basso al centro della sala, poi abbiamo visto i video del viaggio con tutta la famiglia compresa l’anziana nonna rimasta impressionata dai giganti di Angkor e i due figlioli adolescenti entrambi studenti in scuole internazionali, che mi hanno tempestato di domande sui paesi che ho attraversato. Delle persone squisite e generose, un segno di quello che mi aspetta in India dove sto facendo esperienza con la vera “sacralità” dell’ospitalità. Sentivo già la brezza indiana che spirava da ovest, quando una folata di vento da est mi ha ricordato che ero ancora nel Sud-est asiatico e a Yangon la ricca comunità cinese stava celebrando il capodanno con le lanterne rosse accese a festa e i leoni celesti che saltano tra le nuvole. Infatti il Myanmar fa da linea di demarcazione tra l’estremo oriente e l’Asia centrale, ultimo baluardo delle popolazioni sinotibetane dal colorito della pelle chiaro, i tratti somatici mongolici, gli occhi a mandorla ed il naso schiacciato, che qui lasciano il passo alle etnie indo-ariane dalla pelle olivastra, il naso prominente e gli occhi grandi. Qui termina geograficamente e culturalmente l’Asia a me familiare e comincia una fetta di mondo sconosciutami dove cambiano le tradizioni, i comportamenti e le abitudini della gente, ma non avevo idea di quanto fossero diverse anche nelle mie più fantasiose aspettative. A ciò pensavo guardando la distesa blue del golfo del Bengala dall’oblo dell’aeromobile della India Airlines che stava portando me e la bicicletta da Yangon alla capitale culturale e porta est dell’India, Calcutta… Sono in India da 20 giorni e si sta rivelando un’esperienza semplicemente Incredibile, tanto che ho esteso la permanenza nel paese dai due mesi programmati a cinque, ma questo ve lo racconto la prossima puntata.