Trascurate dal movimento femminista e ancora marginali nell’associazionismo dei disabili, le donne con disabilità denunciano discriminazioni nell’istruzione, nel lavoro e nella vita affettiva.
In Italia sono un milione e settecentoventunmila, Secondo i dati del Disabled People International (Dpi). La lotta per i loro diritti ruota attorno a due punti cruciali: dare voce, visibilità e una dimensione di sé all’interno del contesto sociale, e rivendicare lo status di pari opportunità rispetto alle donne non disabili e agli uomini soggetti a menomazione oggettiva (International Classification of Functioning, Disability and Health -ICF).
All’interno di tale processo, l’accezione visibilità non deve intendersi come etichetta o stereotipo. Essere visibili vuol dire essere riconosciute a pieno titolo come donne, come persone capaci e aventi diritto di esprimersi in ogni contesto, sia esso familiare, scolastico, sociale o professionale. Oggi si tende a veicolare l’idea di una donna forte, potente, piena di competenze e attrattive; orbene, questa è una delle ragioni per cui le disabili vengono escluse dal movimento femminista. L’immagine trasmessa da costoro, infatti, è quella di eterne fanciulle, indifese, bisognose e passive. Erroneamente, sono ritenute inabili ai ruoli tradizionali di madri, mogli, casalinghe e compagne, parimenti ai nuovi standard di produttività ed apparenza. Sotto il profilo tecnico e quello etico è una gravissima violazione dei diritti umani, nonché dell’intimità del singolo. Che avverte l’esclusione, aggravata da un’effettiva emarginazione senza appello né speranza. Tutto ciò è strettamente connesso all’immaginario collettivo, che tende a promuovere sentimenti, paure, opinioni e desideri degli individui più avvenenti, o comunque privi di disabilità. In quanto tale, una donna viene considerata spesso “mancata”, al punto da metterne in discussione la femminilità, e con essa la scelta di procreare, educare e crescere la prole. Si può affermare che l’appartenenza al genere femminile, all’identità di Donna, può non riconoscersi o diventare un elemento di negazione per chi è nata disabile. Tant’è, la sua diversità non si esprime solo come differenza di genere, poiché è altro anche rispetto alle donne stesse. Questo vuole essere un grido, un monito, un avviso, una presa di coscienza, una leva per cambiare punto di vista e sollecitare la costruzione di un senso del proprio essere nel mondo. In fondo, le radici sono sempre rosa; bisogna solo educare ed educarsi, sfrattando i pregiudizi dalla mente. Ai lettori il giudizio e il dovuto spazio per i suggerimenti: come possiamo cambiare la condizione della donna disabile, per ovviare alle problematiche di cui sopra?
All’interno di tale processo, l’accezione visibilità non deve intendersi come etichetta o stereotipo.