Donne, Sesso, Disabilità (Parte I)

0
1016

Perché ancora oggi, nonostante le conquiste delle donne disabili, ci troviamo in difficoltà a discutere questi temi, attorno ai quali si crea sempre un certo imbarazzo? In primis, perché  la doppia discriminazione della figura femminile in quanto disabile e svantaggiata tanto verso le pari opportunità, quanto nei confronti degli uomini a pari condizione è un dato di fatto. In secondo luogo perché essa ha difficoltà, nonostante lo spazio ritagliato all’interno delle associazioni di tutela, a trovarne fra i gruppi di donne. A livello normativo, la disabile può sentirsi più protetta grazie alla “Convenzione Internazionale dei Diritti delle persone con disabilità” approvata dall’ONU, in cui l’articolo 6 le è interamente dedicato. Vi si sottolinea l’impegno degli stati aderenti nell’attuare misure adeguate a garantire il pieno e uguale godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il valore, il senso che ogni individuo dà alla sessualità, non è mai svincolato dalla storia che rappresenta col suo stesso vivere. È un processo in costante divenire, che accentua ora una valenza ora l’altra, e la sua immagine è fortemente ancorata ai trascorsi, alle esperienze. Tant’è, consta di due distinte dimensioni, fortemente intrecciate. La prima rimanda alla relazione, all’incontro, al desiderio, allo scambio da cui è difficile dissociare le diverse componenti (genitalità, erotismo, corporeità, ricerca del piacere, trasporto affettivo), ed è un reciproco equilibrio fra sentori fisici, legati al linguaggio del corpo. La seconda è l’espressione diretta della soggettività, che parte dal piacere, dalla motricità, dalla cura di sé, per acquisire il senso dell’esistenza in quanto unica, vivida identità. Riconoscere queste componenti fa parte di un processo di crescita e di evoluzione che accompagna l’intero corso vitale, influenzandone gli strumenti di relazione. Da questo proscenio inizia la rappresentazione di se stessi come corpo sessuato in mezzo a milioni di altri, ed è una costruzione graduale, che passa attraverso lo sviluppo fisico, i cambiamenti sensoriali, motori, le alterazioni ambientali e il modo in cui gli altri vedono, manipolano e considerano il nostro corpo. Il fondamento dell’identità personale sta nell’agio che il nostro involucro trova o meno verso gli altri, le situazioni, i frangenti, poiché il corpo è il modo di essere nel mondo, la sua presenza è la coscienza di essere vivi. Andrea Mannucci, in “Anche Per Mio Figlio Disabile Una Sessualità?”, osserva come questo mondo sia una realtà in cui mente, corpo e relazione sono perfettamente intrecciate tra loro. Rapporti, empatie, dimensioni interiori hanno una rilevanza comunicativa fondamentale, anche fra persone dello stesso sesso. Orbene, una ragazza portatrice di deficit motorio incontra numerose difficoltà nell’esprimere la propria corporeità, nel percepirsi come oggetto seduttivo, nell’entrare in relazione con l’altro e vivere appieno la propria identità femminile. L’autocoscienza risente dei meccanismi di sublimazione e negazione della dimensione sessuale adottati dalla famiglia e dalla società tutta, che considera un corpo handicappato come asessuato. Alle difficoltà relazionali intrinseche al deficit stesso, si affiancano quindi una serie di patemi sociali che ostacolano l’espressione del proprio intimo. Secondo Giuliana Ponzio, medico, sessuologa e psicoterapeuta, quando una bambina nasce la cultura le ha già confezionato da secoli un progetto di vita. E questo disegno non prevede la difesa dei propri confini, la possibilità di dare valore ai desideri che fuoriescono dalle geometrie della tradizione. La bambina, perciò, non solo li accantona, ma alimenta il senso di colpa per averli pensati, pretesi, rimossi. È insomma vittima dell’architettura di relazione madre-figlia, strutturata come un rapporto di potere, dove la genitrice “guida” senza dubbi la prole. E il desiderio più ostacolato, rimandato a un “dopo” mai troppo maturo, è quello sessuale nelle svariate connotazioni: dalla scoperta del corpo alla masturbazione. È una sorta di ritorno all’utero, in cui la piccola resta sempre identica per la madre, che trasforma in un drastico divieto il tabù dell’handicap: la sessualità. Una relazione del genere per la bambina è un no a priori, non più un “dopo”, fino a sopprimere il distinguo fra corpo e identità di genere.