Stanislavskij e la parabola del Sistema

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Nato a Mosca il 5 gennaio 1863, Konstantin Sergeevič Alekséev, più noto come Stanislavskij (suo nome d’arte), è stato uno dei più importanti innovatori del teatro moderno. Di famiglia agiata, sin da piccolo fu educato alla musica e all’arte: la nonna materna era Marie Verlet, attrice francese, mentre i suoi parenti russi facevano parte di una ristretta cerchia di illustri mecenati. Grazie al suo retaggio culturale e a numerosi viaggi in Europa, Konstantin sviluppò una precoce e irresistibile attrazione per il palcoscenico, organizzando piccoli spettacoli teatrali insieme ai fratelli e iscrivendosi alla Scuola drammatica dei teatri imperiali. La sua frequenza, però, incontrò presto un duplice ostacolo: la difficoltà di conciliare gli orari di lezione col lavoro nell’industria paterna, e l’insofferenza verso i rigidi e formali metodi di recitazione imposti.

Nel 1888, grazie all’abolizione del monopolio dei Teatri imperiali, Stanislavskij fondò con alcuni collaboratori la “Società d’arte e letteratura”, potendo così passare dai vaudevilles del circolo familiare al dramma. Questa nuova ed entusiasmante sfida lo mise di fronte alle problematiche dell’attore, inducendolo ad approfondire con scritti, diari e appunti le sue ricerche sulla creazione scenica. Un’altra importante svolta avvenne a fine Ottocento: dall’incontro con il letterato Vladimir Nemirovič-Dančenko, infatti, nacque una sinergia che nel 1898 diede avvio al Teatro d’Arte di Mosca, culla della riforma teatrale russa. Se Dančenko si occupava della drammaturgia e della scelta dei testi da inscenare, Stanislavskij si dedicava alla scenografia, alla regia e al coordinamento degli attori. Tra i due si instaurò un rapporto di stima e profondo rispetto, tanto proficuo da portare alla ribalta opere che altrove avevano fallito.

Emblematico in tal senso fu il caso de “Il Gabbiano” di Cechov, condotto al successo a due anni di distanza dalla Prima, e che contribuì non poco ad alimentare la fama dell’autore. Negli anni della carriera sovietica, Stanislavskij preparò molti scritti sul lavoro dell’attore e del personaggio, autentiche pietre angolari del celebre Sistema, più tardi confluite in opere autobiografiche come “Il lavoro dell’attore su se stesso” (1938) e “Il lavoro dell’attore sul personaggio” (pubblicato postumo nel 1957).

Tali studi, frutto di un’esperienza pluriennale, miravano al realismo inteso come rifiuto dei cliché teatrali e come ricerca di verità scenica. Attraverso un’approfondita analisi del testo e del sottotesto, e la divisione della parte in specifici compiti e sezioni, l’attore doveva cercare affinità tra la propria esperienza emotiva e quella del personaggio da interpretare. Per essere autentiche, le azioni dovevano essere precise e mosse da uno scopo: solo così, a circostanze immaginarie, frutto della penna di un drammaturgo, potevano corrispondere azioni vere, determinate dal sentimento. La disciplina trasmessa agli allievi da Stanislavskij, e da lui stesso praticata in svariate performance teatrali, fu definita psicotecnica, perché frutto della contrapposizione dell’emozione pura con la tecnica, in un recitato colmo di enfasi e meccanica molto in voga all’epoca. L’interpretazione che egli esigeva, pur coerente con le circostanze fornite dalla drammaturgia, doveva essere figlia di una rielaborazione personale, e quindi vera. A tale scopo, elaborò esercizi specifici per affiancare l’attore nel difficile processo creativo. Vivere sulla scena significava anzitutto “sentire” (azione interiore), ma per comunicare la propria carica emotiva era necessario affiancare alla riviviscenza un’adeguata preparazione del corpo (azione esteriore). Perciò, nessuna fase del lavoro era lasciata al caso: educazione fisica, distensione e rilassamento muscolare, logica e coerenza delle azioni, canto e dizione sarebbero serviti a plasmare le movenze e la voce dell’attore; uso del “sé magico”, immaginazione, attenzione scenica, sviluppo del senso del vero, del ritmo e della memoria emotiva, invece, avrebbero stimolato il suo mondo interno, aiutandolo nella personificazione. Purtroppo, la Rivoluzione d’Ottobre e il progressivo instaurarsi del regime sovietico crearono parecchi problemi al Teatro d’Arte, così nel ’22 Stanislavskij lasciò la Russia e intraprese una lunga tournée all’estero. Grazie a quei viaggi il Sistema si diffuse a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti, conferendo celebrità al maestro e costituendosi in apposite scuole. Al ritorno dagli USA non trovò terreno fertile, a causa dell’ostruzionismo Leninista prima e Staliniano poi verso le arti e la cultura. Proseguì comunque coi suoi insegnamenti, inscenando opere di stampo prevalentemente classico e redigendo saggi sulle sue teorie. Morì di malattia il 7 agosto 1938, nella città natale. Di lui restano le opere scritte, straordinaria testimonianza di un’intera vita dedicata al teatro. Il tempo ha comportato inevitabili modifiche al suo stilema, tuttavia ancora attuale. Negli anni Sessanta, il Living Theatre e il Metodo di Grotowsky hanno fatto del maestro un’icona imprescindibile, e grande è anche l’influenza dei suoi insegnamenti nel Cinema. Nel corso degli anni Trenta, infatti, l’American Laboratory Theatre, fondato a New York da suoi allievi emigrati oltreoceano, si fece depositario del Sistema. Tradizione, questa, ripresa dal Group Theatre e dall’Actors Studio di Elia Kazan (1947), che ha sfornato alcuni “pesi massimi” della storia della recitazione: Marlon Brando, James Dean, Karl Malden su tutti.