Sorto nel secondo dopoguerra come espressione propriamente italiana, il Neorealismo ha avuto un’enorme influenza internazionale, tanto da essere considerato tra i più importanti movimenti della storia del cinema. Siamo nel contesto della modernità, che per l’industria cinematografica comincia a delinearsi dopo Quarto Potere (1941), ed è proprio il capolavoro di Welles a inaugurare un periodo di cambiamento e di graduale presa di distanza dai dogmi del cinema classico.
Se la narrazione hollywoodiana dell’epoca d’oro è caratterizzata da connessioni causa-effetto chiare e facilmente comprensibili, le nuove tendenze adottano stili più complessi e trame meno strutturate: gli eventi non sono necessariamente palesati, né scanditi da ordini razionali. Ecco quindi storie frammentate, non lineari, anche in virtù di una presa di posizione più marcata da parte degli autori. Un’ulteriore differenza rispetto alla tradizione si manifesta nel cosiddetto realismo obiettivo, molto evidente nella recitazione: meno impostata di un tempo, sostituisce l’enfasi con parlate basse o colorite e atteggiamenti di stampo popolare. Nel contempo, anche le tecniche di regia si innovano, grazie soprattutto al piano sequenza, una ripresa in continuità che restituisce “democraticamente” l’effettiva durata degli eventi, senza stacchi di montaggio.
Questi cambiamenti si condensano, tra il 1945 e il 1951, nella breve e fiorente stagione neorealista, altrimenti detta primavera italiana. Il movimento è abbracciato da molti cineasti e attraversato da poetiche contraddittorie, mai definite da scuole o manifesti specifici. Quello che accomuna le differenti posizioni è la volontà di mostrare il reale con disincanto, proponendolo attraverso uno sguardo critico e obiettivo. Salvo rare eccezioni, come “La terra trema” di Visconti, le tematiche affrontate si incentrano sulla storia recente e i suoi risvolti sociali. Il grande schermo scende quindi nelle strade, tra la gente, mostrando senza retorica la devastante portata del Conflitto.
A fronte degli ingenti danni subiti da Cinecittà, le scene sono spesso all’aperto, ma senza stereotipi: nella maggior parte dei casi, infatti, si ricostruirono set appositi, nonostante per rendere più verace l’ensemble attraverso la cinepresa siano spesso necessarie illuminazioni ricercate e particolari movimenti di macchina. Non di rado, inoltre, alla registrazione audio in presa diretta seguono dialoghi doppiati. Gli attori, infine, sono scelti tra professionisti e non, secondo la tecnica dell’amalgama. In definitiva, elementi contrastanti convivono nel medesimo film, ed è proprio questa compresenza a definirne l’unicità.
Emblema dell’opera neorealista è “Ladri di biciclette” (Vittorio de Sica, 1948): la pellicola racconta la dura vita dell’operaio Ricci, cui viene rubato l’unico mezzo di sussistenza, la bicicletta. Per continuare a lavorare e sfamare la moglie e i due bambini, egli attraversa la Capitale alla disperata ricerca del responsabile del furto. L’andamento episodico e l’estetica del pedinamento sono tratti peculiari che permettono di osservare i personaggi nella girandola degli eventi, quasi come in un inseguimento. I cambiamenti di maggiore portata si hanno durante la narrazione (supportata da colonne sonore di grande impatto e incentrata su fatti casuali), come nel capolavoro di De Sica, quando Ricci incontra per pura coincidenza il ladro che sta cercando.
Altri elementi d’interesse sono il frequente ricorso all’ellissi temporale, che omette le cause di molti fatti narrati, e la giustapposizione di scene ordinarie ad altre di grande rilievo, tutti espedienti in grado di rendere familiare il mondo narrato. In ultimo, si prediligono i finali aperti. Allo spettatore è chiesta una partecipazione più attenta rispetto al passato, nonché lo scioglimento dei nodi tematici, compito non assolto dal regista. Lo stesso “Ladri di biciclette” termina con una scena di massa, in cui l’operaio e il figlio si mischiano alla folla senza riuscire nel loro intento: le conseguenze di questa sventura sono lasciate all’immaginazione.
A fronte dell’intesa attività dei cineasti dell’epoca, in grado di produrre opere come “Germania anno zero” (Rossellini, 1947), “Riso Amaro” (De Santis, 1949), “Umberto D” (De Sica, 1952), il Neorealismo non trova terreno fertile, e sin dall’esordio pare destinato a una rapida estinzione. A osteggiarlo è anzitutto il gusto del pubblico, che dopo le sofferenze vissute sulla propria pelle preferisce andare nelle sale per svagarsi. Inoltre, il biasimo della Chiesa Cattolica per la crudezza di certe scene e la tendenza del mondo politico a percepirli in accento pessimistico, porta a provvedimenti governativi come la Legge Andreotti del 1949, che ne impedisce a lungo l’esportazione, considerata lesiva dell’immagine nazionale. Nel 1953 viene indetto a Parma un Congresso sul Neorealismo, ma la tendenza ormai è in declino: i toni accesi e originali, la cruda visione del mondo che proponeva stanno già sfumando nella più apprezzata commedia italiana, e devono fare i conti col successo del cinema americano d’intrattenimento. L’attuale rivalutazione di quelle pellicole dovrebbe essere un monito per una critica più consapevole e accorta.