Gli uomini tollerano i peccati in cui cadono più spesso, ecco perché la caccia al responsabile del disastro nel Golfo Del Messico minacciata dal presidente Obama sembra destinata a restare senza preda. L’astuzia della selvaggina braccata sta proprio nel nascondersi nel folto più ovvio, lontano dagli artigli, dalle zanne, dalle trappole di ferro e di fuoco. E la richiesta di risarcimento alla British Petroleum è una goccia nel mare, un mare contaminato dal ridicolo orgasmo del business: nessun indennizzo può riequilibrare un ecosistema. I pescatori, gli abitanti della costa, gli animali, i turisti, sono da considerarsi alla stregua del resto del mondo, condannato per mano altrui a subire le conseguenze di mille angherie, inquinamenti.
Evapotraspirazione, seguita da nubi tossiche; senza ipocondria né catastrofismo, siamo autorizzati ad aspettarci di tutto. La falla è nel pavimento della Terra, ma il problema è in superficie, perché quella tubatura vomita tonnellate di oro nero che la Compagnia inglese non vuole assolutamente perdere. I suoi tecnici tentano le più inverosimili operazioni pur di incanalare il petrolio in navi-cisterna pronte alla raccolta, evitando così di compromettere il profitto e seppellirne il ricordo sotto un tappo di cemento. Le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra, gli esperti contestano l’insufficienza delle chirurgie del rimedio, e l’Occidente si arrampica sugli oceani con l’utilità di una formica in un vespaio. Guarda verso Est, aspettando una soluzione d’interesse a breve scadenza, prestando il favore del punto cardinale all’ipocrisia del tempo. E il tempo è solo un espediente per impedire che i fatti accadano tutti assieme.
Risulta perciò difficile allineare le scelte della BP alle parole del presidente degli USA: accodarsi alla maggioranza per poi contestare è una sconfitta. Sia fatta la volontà del pianeta, impedendo alle parole di manager e statisti di godere di un diritto alla menzogna che, ormai, si accorda a fatica persino ai bambini.
