A Ragion Di Stile: Il Montaggio Cinematografico

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Il montaggio cinematografico è un processo di post-produzione filmica: operando direttamente sulla pellicola, il girato è messo in serie e strutturato come previsto dalla sceneggiatura. Ma contrariamente a quanto si pensi, non è un’operazione di mero assemblaggio, bensì risponde a particolari finalità espressive e stilistiche. Anzitutto, oltre a contare su una fondamentale abilità tecnica, il montatore possiede uno “sguardo vergine” sulle immagini, perché di norma non prende parte alle riprese. Si trova dunque nella condizione più vicina al futuro spettatore, e il suo punto di vista è fondamentale per il regista. Inoltre, il suo intervento dà senso a spazio, durata  e ritmo della narrazione, secondo il genere prescelto. Accelerazioni o ralenti, scene frenetiche o lunghe, risultano determinanti nella costruzione filmica, incidendo sulla sua percezione.

 

 

Dal punto di vista storico, è George Méliès a scoprire le potenzialità del montaggio: mago illusionista e proprietario del Théatre Robert-Houdin di Parigi, resta impressionato dal cinematografo dei fratelli Lumière e vuole servirsene per arricchire il suo programma di numeri e trucchi. Poiché lo strumento non è ancora in vendita, nel 1896 Méliès ne costruisce uno simile, cominciando a girare brevi sequenze fantastiche e d’astrazione. La prima è “Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin” (Sparizione di una signora al Robert-Houdin), in cui il prestigiatore trasforma il corpo di una donna in scheletro. Per ottenere quest’illusione visiva, Méliès realizza un fermo-macchina e blocca momentaneamente la ripresa, e ciò gli dà il tempo necessario a sostituire la signora con lo scheletro, per poi continuare a girare. Di qui in avanti, le sue sperimentazioni fanno passi da gigante. Nell’arco di un anno le riprese passano da un’inquadratura fissa, in diretta, entro cui si svolge l’azione, a veri e propri film, dove egli mette in successione inquadrature diverse per ottenere sorprendenti effetti speciali.

 

 

Il cinema dei primordi si rivolge a un pubblico ingenuo, non ancora abituato al nuovo mezzo: le rudimentali macchine da presa cercano di guidare l’occhio dello spettatore, e spesso si ricorre a presentatori o voci fuori campo che spiegano il film durante la proiezione. Di lì a poco si passerà alle didascalie, che presentano i fatti, li sintetizzano e riportano i dialoghi. Nel primo decennio del Novecento la psicologia dei personaggi comincia a motivare le loro azioni, e gradualmente il pubblico comprende lo sviluppo delle storie. Ma per rendere in modo efficace l’idea della continuità narrativa e dei rapporti spazio-temporali tra le diverse sequenze, è necessario operare sul montaggio. Pur non essendo l’ideatore delle nuove tecniche, è il regista americano David Griffith a teorizzarle, realizzando capolavori del cinema muto come “Nascita di una nazione” (1915). Uno dei primi espedienti narrativi è il montaggio alternato, tratto caratteristico dei film d’inseguimento: alternando avanti e indietro inquadrature diverse, lo spettatore capisce che le azioni mostrate avvengono in luoghi differenti, ma contemporaneamente. Vi è poi il montaggio analitico, che descrive in modo esauriente un luogo, giustapponendo inquadrature a campo lungo con riprese ristrette su particolari dello stesso. Infine, il montaggio contiguo: nel succedersi di diverse inquadrature, i movimenti dei personaggi vanno in sincrono, secondo la stessa direzione, dando così la percezione che gli spazi siano contigui. Aumentano, per la stessa ragione, le inquadrature soggettive: gli attori sono ripresi mentre guardano fuori campo, e immediatamente dopo la macchina da presa stacca su quanto stanno osservando (raccordo sullo sguardo). A breve, sarà introdotto anche il campo/controcampo.

 

 

Su tutti, è il cinema sovietico degli anni Venti quello che esplora più a fondo le possibilità del montaggio. Già docente della Scuola statale di cinematografia di Mosca, Lev Kulešov alterna al primo piano dell’attore Mozzuchin immagini diverse (un cadavere, del cibo, un bimbo, ecc.). L’espressione di Mozzuchin è la medesima, ma accostata a tali riprese pare assumere di volta in volta stati d’animo diversi (paura, fame, tenerezza, ecc.). Kulešov inquadra anche i dettagli di più volti femminili, e accostandoli dà l’impressione che i particolari facciano parte del medesimo corpo. Questi studi, successivamente approfonditi dai registi russi Ejzenštejn, Pudovkin e Vertov, dimostrano che, più dell’inquadratura, è il montaggio a innescare emozioni nello spettatore. Il montaggio intellettuale, poi, inserisce nella narrazione un elemento extradiegetico, ovvero estraneo ad essa: questo spinge lo spettatore a creare paralleli, analogie e differenze, aprendo un ventaglio infinito di significazioni possibili.

 

Dopo la Prima Guerra Mondiale il cinema conosce la sonorizzazione, le didascalie diventano inutili e si diffondono nuovi stili di ripresa. Sono gli anni d’oro di Hollywood, votati alla massima linearità narrativa. Anche in virtù delle innovazioni tecnologiche del periodo, gli stacchi tra inquadrature si fanno sempre più morbidi e precisi. Il montaggio è ormai fluido, e spesso si serve di dissolvenze e tendine, ma bisogna attendere “Quarto Potere” di Welles (1941) per ottenere finalmente strutture filmiche di grande complessità: salti temporali, ellissi, profondità di fuoco, uso del piano sequenza (ripresa in continuità, senza stacchi). E il cinema non sarà più lo stesso.