Nel 1895, l’avvento del Cinema accende le speranze di chi vuole riprodurre la realtà in modo imparziale, assolutamente obiettivo. Del resto, la cinepresa non è che uno strumento tecnico/meccanico al di sopra delle parti: i primi cineasti si illudono di poterla utilizzare per registrazioni prive di filtro, ma la loro ingenuità lascia gradualmente spazio alla disillusione. Ben presto ci si rende conto che il linguaggio audiovisivo è sempre ricostruzione, dunque inevitabile intervento sul mondo. Allora come oggi, è il documentario il genere più affidabile per la registrazione del reale, che non di rado dichiara a priori la propria natura, diversamente dalla fiction. Grazie al progresso tecnologico, inoltre, il documentario fa propri alcuni statuti linguistici non concessi altrove, a partire dalla qualità dell’immagine, superiore rispetto alla media e più definita. L’illuminazione è differente, così come il collocamento della cinepresa, che può addirittura sporcarsi o bagnarsi. Infine, gli operatori non sono necessariamente nascosti, e i soggetti ripresi possono guardare nella telecamera, rivolgendosi direttamente allo spettatore.
Sebbene ciò contribuisca a un forte realismo, anche il documentario può avere svariate significazioni, che dipendono anzitutto dal produttore e dalle sue finalità. Il contesto socio-culturale in cui viene girato, la volontà espressiva del regista, il tipo di montaggio, la possibilità di manipolare la pellicola con tagli e inserti, rivelano l’essenza del cinema in quanto medium. Eppure, l’immagine in movimento e quella fotografica che ne sta alla base, nascono proprio dall’intenzione di riprodurre fatti, attestare avvenimenti e garantirne la memoria: la congiuntura tra reale e finzione si fa quindi sottile, in qualche modo ambigua. A fare chiarezza sul tema concorre il critico francese Roland Barthes ne La Camera Chiara. Nota Sulla Fotografia (1980). Caratteristica peculiare dell’immagine fotografica è la referenzialità, vale a dire il suo ruolo di congiunzione tra il qui-e-ora e il passato. Se la fotografia si presenta come immagine del tempo, farla muovere in successione come accade nel cinema, significa farne anche un’immagine nel tempo, che coglie il divenire.
Contemporaneo di Barthes, anche André Bazin si occupa della questione. A suo parere, il cinema non è che l’espressione moderna del “complesso della mummia”, ovvero l’urgenza tipicamente umana di conservare quanto è stato. In tal senso, il medium filmico non costituisce alcuna novità, poiché risponde alle stesse esigenze che nei secoli hanno mosso l’Arte – quella pittorica in primis, quella fotografica più avanti. Possedere o dominare il tempo tramite il grande schermo è solo un effetto percettivo, un moderno miraggio. Tuttavia, come ricorda Bazin, prelevare la realtà e restituirla nella sua durata effettiva rassicura l’uomo, risponde al suo incessante bisogno di senso. La conservazione del passato e del reale, la possibilità di rivivere quanto accaduto ogni volta che lo desidera, è come una rivincita sulla morte.
Sandro Bernardi, docente di Storia e Critica del Cinema all’Università di Firenze, aggiunge: “Il cinema non riproduce la realtà, ne dà solo una rappresentazione”. Tuttavia, questa caratteristica non sminuisce affatto il valore del cine-documentario come spiraglio di luce sull’umano, come testimonianza di ciò che è stato, come possibilità di leggere in modo diverso la nostra Storia. Basti pensare all’impegno nel conservare la memoria dell’Olocausto, di cui emblematica è l’opera di Spielberg. Se il suo Schindler’s List, per quanto significativo è comunque “solo” un film, un rilievo ancora più importante è dato dall’iniziativa archivistica promossa dallo stesso regista. Nel 1994, infatti, Spielberg fonda la Survivors of the Shoah Visual History Foundation. Si tratta di un’associazione no profit, con la quale si è impegnato a raccoglie circa 52.000 video-testimonianze delle vittime della Shoah.
Spielberg sfrutta le possibilità offerte dall’audiovisivo per realizzare un’opera corale, vivida ricostruzione della realtà storica: al racconto orale fa corrispondere una ripresa ritrattistica, fissa sul volto dei protagonisti. Raggiunge così la massima aderenza possibile tra parole ed emozione, in un dialogo rivolto ai posteri, per non dimenticare le atrocità. Nella stessa direzione era andato prima Resnais, con il film-documentario “Notte e Nebbia” (1955). Alternando immagini e documenti d’archivio a riprese dello stato attuale dei campi di concentramento, il regista affrontava una tematica “scomoda”, denunciando il passato della Germania ed evocando il collaborazionismo francese, in un periodo in cui i due Paesi cercavano accordi politici. Presentato a Cannes e tolto dal concorso, “Notte e Nebbia” è oggi emblema del coraggio di affrontare il proprio passato, capacità venuta meno all’uomo, ma non al film.