Il Disastro Petrolifero (Non) Insegna?

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È trascorso oltre un mese dall’incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, e si tenta in extremis di tamponare la catastrofe ambientale. Scade infatti oggi l’ultimatum dato da Barack Obama alla British Petroleum, la compagnia petrolifera responsabile del disastro. Eppure, quel che è stato definito dallo stesso Presidente degli Stati Uniti “L’undici Settembre dell’ambiente”, rende solo una vaga idea del danno ecologico ancora in corso, il peggiore della storia dell’uomo.

Secondo le stime del Los Angeles Times, finora sono stati riversati in mare tra i 160 e i 320 milioni di litri di petrolio, di cui soltanto 225 mila barili sono stati recuperati. Inoltre, la situazione è peggiorata con l’intervento della BP sull’oleodotto sotterraneo, ossia l’operazione Top Kill del 3 giugno 2010: attualmente l’oro nero continua a fuoriuscire, e se i danni in superficie sono evidenti, quelli al fondale si possono solo immaginare. Complice la stagione degli uragani e il relativo cambiamento climatico, la marea nera ha raggiunto gli stati di Louisiana e Alabama, arrivando a minacciare l’Atlantico. E ricorrere a disperdenti tossici non sembra una soluzione adeguata. Il Corexit, infatti, sostanza nociva bandita in Europa, anziché dissolvere il petrolio, lo scinde in bolle che aleggiano appena sotto la superficie dell’acqua. Per la serie “il problema c’è, ma non si vede”. Un intero ecosistema è in ginocchio, compresa l’economia costiera, la cui sussistenza, garantita da pesca e turismo, è letteralmente al tappeto.

Nessun insegnamento dalla storia, nemmeno quella più recente: se rispetto al tamponamento del disastro in America, la BP temporeggia e si mostra incerta, sul fronte degli affari internazionali sembra avere ben altre posizioni. Secondo un recente accordo stipulato con la Libia, infatti, la compagnia petrolifera più discussa del momento sarà responsabile delle perforazioni petrolifere che presto interesseranno la costa del Mediterraneo meridionale. L’area marina individuata si estende per oltre cinquantamila chilometri quadrati e sarà sfruttata per l’estrazione giornaliera di almeno 3 milioni di barili, secondo quanto previsto dal piano per lo sviluppo petrolifero del Paese. La BP, insomma, pare più interessata che pentita. Di contro, Obama ha sospeso per almeno sei mesi le nuove trivellazioni e biasimato la compagnia britannica per l’atteggiamento assunto verso il disastro. Nel contempo, ha rinnovato l’impegno in materia energetica promosso durante la campagna elettorale. "Niente come questo disastro deve servire a darci la sveglia”, ha affermato il Presidente. Del resto, investire in energie alternative, rinnovabili e pulite, creerà le basi per un nuovo sistema economico, nonché ulteriori opportunità di lavoro e business.

Lodevoli propositi, ma da tradurre in mosse concrete, non più procrastinabili. Il disastro della Deepwater è ben più grave del naufragio della Exxon Valdez di vent’anni fa (che riversò in mare 40 milioni di litri di greggio), e scempi simili non sono più accettabili. Anche l’Italia dovrebbe cogliere il messaggio, anziché crogiolarsi nel rassicurante pensiero che il problema non la sfiori. Se l’accordo stipulato da Gheddafi con la BP avrà piede libero a poca distanza dal Bel Paese, bisognerà stare all’erta: Petroceltic, ENI, MOG, Vega Oil, Northern Petroleum e Cygam Gas, sono soltanto alcune delle compagnie attive sulle nostre riviere, in particolare quelle Abruzzesi.